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Romanzi da leggere online: 23° capitolo di “La voglio gassata”

giovedì 24 Ottobre 2019

La 40^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il ventitreesimo e ultimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

CAPITOLO 23° e ultimo capitolo

Se non fossi ritornata, la parte più intima di me sarebbe rimasta tra quelle mura, amiche di tante ore difficili, di cose non dette, di segreti racchiusi come petali di fiori secchi tra i cuscini, sul letto, nella poltroncina rosa che mi ha visto crescere.

Mi prepararono per l’intervento, lasciai a Roberto un compito, gli dissi: «stai attento alla mia “amica” appena torno fuori dalla sala operatoria, voglio subito indossarla, come a dire. Voglio ritornare prima possibile ad essere me stessa.»

A fare compagnia a Roberto rimasero mio fratello e l nostra amica Francesca.

Anche lei, l’ho conosciuta durante un fantastico viaggio a New York.

È una persona d’indole silenziosa, ma spirito libero da viaggiatrice, in più era una brava cuoca.

Anche Francesca è una donna per A.I.L. ed ha pubblicato alcune sue ricette su un libro A.I.L. sull’argomento.

In sala operatoria, mi venne incontro il Prof. Tafurelli, il chirurgo che mi salutò con una carezza.

Vedi, pensai, anche se tutti i giorni si misurano con il male ed il dolore, in fondo non perdono la capacità di capire come ci si sente ad affrontare queste prove e che un gesto affettuoso può dare coraggio.

Il lettino era piccolo ed io legata. Ero in gabbia un’altra volta, erano lontane le passeggiate, i viaggi, le cenette. Adesso c’era un faccia a faccia con quel mostro nero che tentava di averla vinta su di me.

Mi addormentai senza averne coscienza e ritrovai tutto più tardi, quando riaprii gli occhi e qualcuno mi disse: signora è finita, si svegli.

Non c’è niente di più bello di accorgersi di aver corso un pericolo e di averlo superato.

Antonio, il mio angelo/dottore, telefonò per sapere come era andata. Era a Madrid ed aveva pensato a me. Roberto, la mia roccia, era là come un soldatino fedele e paziente.

Lo guardai con amore e riconoscenza e, spero che abbia percepito quanta gioia provavo a rivederlo.

Ma ero una donna innanzitutto e la mia mano e i miei occhi misero a fuoco quell’enorme garza, cosa nascondeva?

Mi avevano fatto anche lo scavo ascellare e rimasi due notti in ospedale. I miei due pezzi al mare, li avrei più indossati? Mi vergogni di questo pensiero che mi rendeva ingrata verso tutti coloro che, con grande bravura, mi restituivano alla vita, alla mia casa che mai come allora mi sembrò ospitale e accogliente.

Tanto calore da parte di tutti: da Bum Bum, che alla sua maniera mi baciava, all’accoglienza di Emy e della mia vicina che aveva preparato dei dolci.

È stato quell’abbraccio affettivo che ha avuto il potere di allontanare da me la paura, il rischio che avevo corso.

Ora si andava avanti con rinnovata energia.

C’è tanta sensibilizzazione verso queste malattie.

Proprio la domenica successiva al mio rientro ci fu una bella manifestazione a Bologna: la Maratona a favore delle donne ammalate di tumore al seno.

Si chiamava: Race for the Cure, salute, sport, benessere per la lotta ai tumori al seno.

La caratteristica principale dell’evento è la presenza delle donne in rosa, donne che hanno vissuto la mia esperienza e che, per dimostrare l’atteggiamento positivo con cui si confrontano con la malattia, cercano di rendersi intenzionalmente visibili, indossando una maglietta e un cappellino rosa.

Partecipai, c’erano persone che conoscevo bene: il mio chirurgo, l’oncologo, Antonio che sulla maglietta aveva scritto: I run for Roby, cioè io corro per Roberta.

Ecco questo, ad esempio, è stato un momento meraviglioso regalatomi dal cancro.

Il mio stretto rapporto con il Sant’Orsola continuava. Dovevo fare, dopo la chemio, un ciclo di radioterapia della durata di un mese e mezzo.

Ogni giorno erano solo cinque minuti ma essere sempre “assalita” dalle macchine mi sfiniva.

Finita la radioterapia, ogni mese sarei dovuta andare in ospedale per l’infusione di un farmaco che aveva cambiato il corso del tumore al seno.

Se c’è una positività in tutta la mia malattia è quella della tempistica.

Mi sono ammalata quando già esistevano due farmaci miracolosi, sia per la leucemia che per il tumore al seno.

Ogni mese, per un anno, andai al Sant’Orsola.

I miei capelli erano ricresciuti, forti e ricci.

Abbandonai “la mia amica” inaugurando un taglio corto, opera di Monica.

Oggi quando vedo donne con la bandana, mi intenerisco e vorrei poter dire loro: «non abbiate paura, dopo ricrescono.»

Decidemmo con Roberto di fare una crociera.

Ne avevo già fatta una, ma era stata il mio viaggio di nozze, questa aveva un altro sapore, dopo una grave malattia, l’intervento, le cure lunghe e snervanti.

Ho anche notato che molte volte andando in vacanza, sentivo la voglia di ritornare a casa, non succedeva mai con una crociera.

Ho cercato di capire perché e mi sono detta: forse assomiglio ai gabbiani.

Una delle mie poesie preferite è proprio Gabbiani di Cardarelli e dice:

“non so dove i gabbiani abbiano il nido,

ove trovino pace, io sono come loro.

In perpetuo volo, la vita la sfioro

Come essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete

Il mio destino è vivere balenando in burrasca”

Pensavo quale di queste caratteristiche mi appartenesse, questa poesia diventò un pretesto per una meditazione esistenziale.

Paragonare sé stessi a quel perpetuo vagare degli uccelli. Il loro volo, senza sosta, era incredibilmente simile alla mia vita.

La poesia testimonia la dolorosa convinzione di chi si avvicina alla felicità senza afferrarla mai concretamente.

La mia esistenza era come il mare: inafferrabile e instabile. Il grido del poeta assomigliava al mio sogno: vivere con serenità il proprio cammino ma è la forza bruta e misteriosa del destino a vincere quelli che erano i miei desideri.

Quella crociera era frutto dell’ansia della mia vita, del mio vagare alla ricerca della tranquillità. Talvolta mi sentivo in simbiosi con la natura, soprattutto in quelle ore del giorno che precedono il tramonto, la crociera mi dava l’opportunità di diventarne parte, in pratica vivevo un sogno da protagonista.

Avevo, però, sempre i compiti per le vacanze: fare i controlli, bastava un minimo dolore e la mente si scatenava con il dubbio.

Durante un’altra crociera nel Mediterraneo ero sul ponte e osservavo la scia spumosa della nave, quella schiuma bianca sullo sfondo azzurro che faceva affiorare la bambina che viveva in me, inducendomi al gioco.

Pensai: «se vedo un delfino, i miei esami andranno bene».

La sera il comandante ci informò che durante il giorno erano stati visti molti delfini attorno alla nave.

E così fu: era tutto nella norma. Antonio mi disse addirittura che potevamo sospendere il farmaco per la leucemia.

Lui non sapeva quanto questa notizia mi rendesse felice!

Potevo lasciare la malattia come si fa con un vestito, quanta vita e quanto dolore!

Ero ritornata la Roberta di prima: i miei occhi sgonfi, i miei capelli forti e fitti, niente più guerre dentro di me, potevo veramente dire di essere ritornata una persona “normale”.

Ero stata fortunata, e, per tutti quelli che lo sono come me, deve essere un motivo in più per donare, per sostenere la possibilità di trovare farmaci nuovi, più specifici ed efficaci che regalino ai malati anni di vita, in alcuni casi una vita intera.

Sono battaglie da combattere unite, nessuno di noi ha la certezza di stare sempre bene.

Ma abbiamo quella della preziosità del dono della vita, soprattutto per chi, come me, la riscopre.

Una mattina, ero al mercato a fare la spesa, come tante altre donne, mi sentivo così rinata che ebbi l’esigenza di fermarmi, sfidando il giudizio di chi mi poteva ascoltare e dissi: «Per tutte queste persone, questo è un giorno come tanti, per me è il primo di una normalità appena ritrovata: stavo vivendo.»

Non mi sembrava vero, il mio corpo aveva ripreso a vivere senza più alcun aiuto farmacologico. Chi si è salvato ha il dovere di impegnarsi, di mettere a frutto quello che ha imparato per dire che di tumore oggi si vive, per imparare a non temere questa parola, cominciando da una osservazione positiva che sfugge: la parola tumore ha assonanza con la parola amore e in tantissimi casi la seconda sconfigge la prima. Oggi posso parlare di futuro, parola che stavo cancellando dalla mia vita, ho imparato che ogni gesto, anche il più piccolo non è mai banale se può aggiungere senso a ciò che viviamo. Appena “rinata” una mattina sono entrata in un caffè ed ho chiesto il solito caffè.

L’inserviente, un ragazzo, gentilmente mi chiese: «Signora come preferisce l’acqua, liscia o gasata?»

Una ripetitiva e banale domanda mi pose improvvisamente dinanzi al mio futuro.

Non mi interessava più quanto futuro avrei avuto ma potevo decidere quale.

Nessun rimpianto, nessun rimorso ma progetti quotidiani che avrebbero reso ogni mia giornata una conquista.

Sapevo adesso che il primo passo per non essere ammalati è non sentirsi malati.

Ritornai al presente e sorrisi vedendo il viso di quel ragazzo che attendeva ancora la mia risposta che fu: «La voglio gasata».

Mi fece tenerezza pensare che quel giovane uomo non immaginava che portando il bicchiere alla bocca stavo bevendo la mia vita.

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