La 15^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, continua con il sesto capitolo del romanzo “Silenzi d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.
VI CAPITOLO
Il dolore di zia Anna, il tuo amore e le parole giuste trovate mi fecero capire che i sentimenti sono il sale della vita ma, come il sale, vanno spesi con parsimonia e vanno dominati nei momenti in cui a nutrirli sono la rabbia e il dolore. Sii può ferire anche per amore, Dolly aveva dei problemi con sé stessa, e l’incapacità di risolverli la portava a scagliarsi contro le persone a lei vicine.
Mi dicesti anche: “Sono le persone più amate quelle dalle quali pretendiamo comprensione e appoggio”. Ancora una volta avevi ragione: Il tempo cura qualunque ferita e dopo alcuni giorni la nube passò, con sollievo di tutti, e ritorno la serenità seppur apparente.
«Sì, apparente – replicò mamma − hai detto bene. Ai miei occhi e al mio istinto di donna e madre non sfuggiva la sfrontatezza con cui guardava gli altri, soprattutto quelli da lei facilmente dominabili. Quella che per mia nipote era una strada maestra, per me era un vicolo cieco.
Cercai di essere più presente, di sfruttare ogni occasione per farle capire perché tutta quella rabbia avrebbe indurito il suo cuore e, soprattutto, avrebbe dato, a chi non la conosceva a fondo, un’idea errata del suo carattere. Cercava il calore di una famiglia, le figure genitoriali, un amore capace di darle serenità e sicurezza, stava mettendo in pericolo il suo essere donna.
La fragilità, è un elemento che impreziosisce la femminilità, finiva per prestare il fianco alle ferite, agli errori. Anna, in queste situazioni, era doppiamente muta, temeva con ogni suo gesto di portare più disordine nell’animo travagliato di sua figlia. La vedevo sbattuta, le situazioni esasperate devono rompersi per provocare quel dolore che fa rinascere. La posta in gioco era grande, era il futuro di Dolly, ma certi errori sono inevitabili, speravo solo che le conseguenze fossero recuperabili.
Le festività, nell’aria raccolta di un paese, venivano vissute con intensità e avevano il sapore di assomigliare molto a quello delle favole. Eravamo tutti ansiosi perché ci aspettava un Natale indimenticabile.
Ci avrebbero raggiunto mia sorella, mio cognato, ma soprattutto, Filippo e la sua ragazza che, con l’occasione, ci avrebbe conosciuto in forma ufficiale. Costruimmo un grande presepe dove i bambini dei nostri lavoranti posizionarono le statuine, ogni anno, incartate riposte in cantina.
Quell’anno il Natale era freddo come tanti altri, i profumi che si sprigionavano dalle case in fermento, i negozietti pieni di gente che dava fondo ai propri risparmi, mettevano a tutti la voglia di riunirsi, di aiutare, anche con piccole cose, chi era meno fortunato di noi. Noi forse lo festeggiavamo in maniera anche sfarzosa, ma non ci dimenticavamo di nessuno. Le donne dei nostri mezzadri erano ricche di maestria e si addossavano il compito di cucinare, fare dolci per addobbare l’albero e la tavola».
«Era così – mi intromisi − il Natale di quando avevi 12 – 13 anni? C’era la neve?».
«L’albero era grandioso, copioso di addobbi, mentre alla base disponevamo i regali, nelle scatole colorate, legate con nastri colorati. Un po’ dappertutto si trovavano le palle di neve e, scuotendole, innevavano un paesaggio da favola, e questo ci faceva sognare. La Vigilia di Natale ci svegliammo di buon umore, ognuno sapeva quale era il suo compito e ci mettemmo all’opera di buona lena.
Nel forno c’era già il pane a cuocere e il suo profumo si spargeva per tutte le stanze. Rincorrevamo le donne in grande fermento e ci attaccavamo alle loro gonne fino a quando non ci davano un piccolo pane appena sfornato, condito con olio, formaggio e origano. La nostra insistenza era usata ad arte perché saremmo stati accontentati per farci desistere e consentire loro di proseguire nella preparazione dei dolci della tradizione. Una nube di profumi di cannella, zafferano, vaniglia, riempiva le stanze, dove ogni cosa era stata rigorosamente pulita e posizionata, nel rispetto della tradizione.
Gli uomini, in mezzo a questo via vai di donne, si innervosivano; papà andò in stazione a prendere Filippo e la sua ragazza. Il quadretto apparso sull’uscio, mi piacque: Filippo cingeva le spalle di Françoise radiosa e mio marito dietro con le mani occupate dalle valigie.
Mio marito e mio cognato, come accadeva da sempre, si volatilizzarono per visionare delle variazioni apportate in un settore della casa. La zia Emma, con evidente compiacimento, presentò Françoise a tutti e notammo la delicatezza della ragazza nei confronti di Anna, avendo immediatamente compreso il suo problema.
Filippo ti prese in braccio, tentava, con difficoltà, di farti fare l’aeroplano come quando eri piccolina; ovviamente si comportò nello stesso modo con Dolly e consegnò a entrambe il regalo che fu posizionato sotto l’albero. I regalini c’erano per tutti, erano perlopiù bamboline fatte all’uncinetto per le bimbe e macchinine realizzate artigianalmente, per i bimbi».
«Tu e Dolly – proseguì mamma − eravate destinatarie di più regali ma stavo attenta che il numero fosse lo stesso per entrambe. Gli uomini uscirono dandomi l’occasione di chiedere a Françoise come evolveva il problema di Filippo. Mi rispose di sentire la mancanza dei grandi concerti, cercava di avere un atteggiamento positivo soprattutto quando aveva meno dolore e meno crampi. Riusciva a suonare ma per brevissimo tempo.
Lei tutti i momenti liberi dal lavoro li dedicava a lui e il loro rapporto era diventato più saldo; cominciavano a parlare al plurale del loro futuro. Il sentimento era cresciuto e nel condividere tutte le difficoltà, le speranze e i sogni aveva dato loro la prova della sua importanza. Si stavano gettando le basi per una nuova famiglia.
Cercai di farla sentire a suo agio, presentandola a tutti, coinvolgendola nella preparazione della tavola per la cena, dandole il posto accanto a mio marito capo della famiglia della tavola.
Dopo la cena, ci attendeva la messa di mezzanotte a cui partecipavano quasi tutte le famiglie del paese; diventava l’occasione per scambiarsi gli auguri e fare nuove conoscenze. Quella sera la tavola, da sempre simbolo di convivialità e di unione, per ognuno di noi rappresentava la famiglia, la possibilità di dare voce ai buoni sentimenti, di essere l‘esempio giusto per i piccoli, insomma creare un bel ricordo da tramandare al nostro futuro.
Quando il Sacro è imperante nella nostra vita, il dolore, la paura, i rancori sembrano sparire dinanzi al calore della fede, alla convinzione che l’impossibile per gli uomini è fattibile per Dio.
Durante la cena che fu apprezzata da tutti, osservai Françoise. Una delle sue caratteristiche apprezzate da me era che riusciva, in ogni circostanza, a essere inappuntabile. Prova vivente come l’eleganza e la semplicità può coesistere e la mise più importante è, oltre a quella esteriore, quella che ci rappresenta come mente e cuore.
Quella sera era particolarmente elegante e la presentai ai nostri amici con molto orgoglio, sentimento che notai anche negli occhi di mio figlio. Era una donna che riusciva a esaltare i sensi senza scadere mai nel volgare, apprezzava il dialogo e la cultura senza mai fare sentire a disagio chi non ne era all’altezza.
Ci preparammo per andare a Messa. Dopo i rituali auguri scambiati sul sagrato della chiesa, sempre più corposi quando con noi c’era Filippo, tornammo a casa. Era una bella serata, in cui la sacralità del momento aggregante della messa aveva arricchito i nostri sentimenti di disponibilità e di affetto verso gli altri.
La mattina di Natale ci svegliammo tutti un po’ più tardi e, come da tradizione, ci raccogliemmo tutti in pigiama e in camicia da notte attorno al camino già dalla tata opportunamente acceso.
I regali, da sempre, erano donati in due tempi: la vigilia ai bambini e il giorno di Natale ai grandi. Stavolta l’incombenza di distribuire i regali per gli adulti era mia e fui felice di farlo. Filippo ebbe in regalo un maglione di cachemire del suo colore preferito, Françoise una boccettina di profumo a base di gelsomino da lei tanto apprezzato.
Da parte di Françoise, Filippo ricevette un regalo importante, un paio di gemelli in oro, con le sue iniziali. Filippo consegnò alla sua ragazza una carta in pergamena, arrotolata e legata con un nastrino rosso. Lei lo srotolò, era una suonata a quattro mani, per pianoforte, con la seguente dedica: “A Françoise, la mia musica più bella”. Era finalmente l’ufficializzazione di quanto stavano vivendo.
Con la tipica ingenuità che talvolta contraddistingue gli uomini, tuo padre, per il quale eri la luce dei suoi occhi, ti regalò una grande scatola colorata, piena di fiocchi rosa che ti fece impazzire di gioia.
Sembrava una scatola di legno; tuo padre la appoggiò, posizionò sulla superficie un disco in vinile e, con un movimento semicircolare abbassò la puntina sul disco. Si diffuse una musica nota a tutti perché famosa. Lo sguardo preoccupato di Anna si scontrò con il mio e precisai subito che quel regalo avreste potuto usarlo entrambe.
Dolly, visibilmente contrariata, disse in tono animato: «No, quel regalo è suo e non deve dividerlo con me» Poi aggiunse: “Perché mio padre, oggi Natale, non è qui con noi, non mi ha portato il suo regalo?
In realtà io sono sola, non ho né la mamma né il papà, sono sola e i regali degli altri non mi interessano».
Per ognuno di noi dietro le sue parole c’erano verità nascoste, macerie, sogni frantumati, speranze evaporate per rancori che bruciavano ancora.
Nessuno di noi riuscì a profferire parola e lasciammo Dolly andarsene via, speranzosi che la sua rabbia evaporasse come un temporale a primavera. Il futuro ci avrebbe dimostrato come quella domanda, rimasta senza risposta, avrebbe scavato un solco dentro di lei e l’avrebbe portata lontana da tutti noi. Anna, essendo sua madre, riusciva con dei gesti dettati dal suo amore a rabbonirla, giustificata da un silenzio a cui entrambe davano un contenuto che coincideva con una carezza, una risposta a secondo dell’esigenza del momento.
Quel giorno così triste passò nella speranza di non riviverlo. Veder ripartire i miei parenti mi rattristò, ma meno delle altre volte, per due motivi: mio nipote non era più solo ed Emma aveva appena trovato quella figlia che non aveva mai avuto.
Ognuno sarebbe tornato a far fede ai propri impegni: Françoise a esibirsi nei più grandi teatri del mondo e Filippo a casa per poter continuare le sue cure e dedicarsi a come modificarla per ottenere spazi più idonei per una nuova famiglia.
Ci aspettavano grandi eventi e il tempo rotolava in fretta, inciampavamo in qualche buca ma subito pronti ad avanzare con più decisione.
Da quell’episodio Dolly cambiò: non frequentava più i suoi compagni di classe, tornava a casa più tardi senza dare motivazione a nessuno, nemmeno ad Anna era sempre più preoccupata, la sua bambina poteva diventare preda di ragazzi senza scrupoli e un copione di vecchia data poteva ripetersi.
Qualsiasi emozione, quindi anche il dolore, per Anna si amplificava in quanto non poteva essere motivato con chiarezza attraverso le parole: la spiegazione veniva condensata nei gesti e nella capacità interpretativa delle labbra.
Pensavo che in una situazione del genere il dolore più grande fosse vedersi trattare con sufficienza, oppure vedersi voltare le spalle proprio quando lei stava tentando di chiedere o rispondere a qualcuno. Quando Dolly creava delle situazioni di questo tipo, metteva a dura prova il mio affetto per lei e ogni volta facevo sempre più fatica a trattenermi dall’intervenire.
C’era una madre che non potevo e non volevo scavalcare, non era giusto prendere il suo posto ma, intanto, una bimba rischiava di crescere senza briglie, senza capire come l’istinto deve essere sottoposto alla ragione e si debbano vivere tutti i passaggi dell’età perché, ognuno, lasciandoci gioie e dolori, ci permette di crescere.
Mio marito cercava di calmarmi, per lui l’adolescenza, in generale, rendeva i ragazzi più ribelli e sempre pronti a contestare i genitori.
Ma io non potevo non pensare che c’era una persona, Giovanni; avrebbe dovuto essere presente nella sua vita, educarla, valutare i suoi comportamenti, punendola o premiandola quando era il caso, e invece era assente.
Quando si verificavano eventi in cui la sua presenza sarebbe stata risolutiva, ero stata, tante volte, tentata di chiamarlo, di chiedergli come aveva potuto lasciare vuoto il suo posto nella vita di due donne, come poteva non tenere conto della necessità della sua presenza nella crescita di Dolly che lo reclamava con la rabbia, le lacrime, l’insofferenza ad ascoltare chiunque.
Non si lasciava più neanche abbracciare, il suo rendimento scolastico era critico e correvano voci che era sempre in mezzo a gruppi di ragazzi, con i quali condivideva comportamenti non adeguati alla sua età. Anna sapeva e mi raccontò che una mattina l’aveva seguita ed era rimasta appoggiata a un angolo di strada a guardarla civettare con un amico. Lo provocava con sguardi e moine ammiccanti. Tornò a casa con il palmo della mano massacrato per averlo più volte sbattuto contro il muro ruvido fino a sentir male per bilanciare quel sordo dolore che la rendeva diversa da tutti.
Credetti fosse arrivato il momento di intervenire, prima di vederla finire in qualche brutto guaio, e chiesi ad Anna di essere presente alla discussione per dare, con la sua presenza, più importanza alle parole che avrei detto.
L’occasione mi fu data una sera in cui Dolly aveva la pretesa di uscire per andare a una festa.
In maniera decisa non tolleravamo più i suoi comportamenti. Stava mancando di rispetto verso tutti noi che l’avevamo sempre amata, non potevamo starcene tranquilli e vedere mandare in rovina la sua vita, non studiando e seguendo gli esempi di ragazzi i cui comportamenti erano tutt’altro che esemplari.
La sua reazione immediata non mi sorprese, ma il senso di quello che disse, spogliato della rabbia incontrollata era offensivo nei nostri confronti, ma ancor più nei confronti di sua madre. Anna le parlò in tono più affettuoso, dicendole di non aveva ancora l’esperienza necessaria per capire da sola cosa fare in certe situazioni e da cosa fuggire; alla sua età ci si sente grandi ma non lo si è e bisogna accettare i consigli di coloro che ci vogliono bene.
«Quali familiari − rispose lei − io non ho genitori e non sono tenuta ad ascoltare nessuno; voglio fare della mia vita quello che mi pare».
Il tono era aggressivo e appositamente veloce, incurante del problema di Anna, visibilmente in difficoltà a seguire il discorso.
Fui sommersa dalla rabbia per la sua presunzione, la mancanza di riconoscenza nei confronti di tutti, per la sua volontaria noncuranza del problema di Anna, così, al mio pensiero, immediatamente segui uno schiaffo, col quale intendevo richiamarla a un comportamento più ragionevole. Quello schiaffo mi procurò sicuramente più dolore di quello che provò Dolly. Lei era del tutto impreparata alla mia reazione, perché mi ero sempre limitata a sgridarla, senza passare mai a vie di fatto.
Si ritirò in camera alla quale uscì all’ora di cena che consumò in assoluto silenzio, ignorando i tentativi di Anna, volti a cercare di mediare.
Persi il sonno tante notti, divorata dai sensi di colpa per un gesto non giustificabile da parte mia. Anna aveva perso il sorriso, tu non riuscivi a spiegarti il motivo dell’allontanamento di Dolly che non ti cercava più per giocare. Avevo bisogno del sostegno di Emma, benché all’oscuro di tante cose, la sua maturità e il suo buonsenso mi avrebbero aiutato e la chiamai.
Mia sorella sarebbe partita a giorni; lei da sempre, non amava viaggiare ma avrebbe, per amore di suo figlio, affrontato anche questa prova.
Secondo me era giusto che Filippo facesse quest’altro consulto a Parigi, al loro ritorno avremmo fatto in modo di trovarci tutti insieme, per ripartire da dove i dolori e i problemi dell’uno e dell’altro ci avevano reso difficile proseguire. Avevo anche maturato la voglia di conoscere più a fondo quella brava ragazza che stava aiutando mio nipote ad andare avanti nonostante tutto, rispettando l’amore materno di mia sorella e quindi rispettandone il ruolo senza gelosie e rivalità.
Mi ripromisi anche di chiamare, durante la sua assenza, mio cognato che pensavo preoccupato e lo avrei convinto a venire a trascorrere qualche giorno da noi, considerato che il rapporto tra lui e mio marito era dei migliori.
Mio cognato era, come si diceva dalle nostre parti ‘un uomo tutto d’un pezzo’, ma buono, e mia madre aveva sempre visto in lui la solidità per Emma, alla quale non avevo mai chiesto se l’amore avesse trovato posto nella sua unione.
Forse era improprio parlare di amore per quei tempi. La frequentazione era sotto attento controllo dei genitori che sceglievano sulla base dell’irreprensibilità della famiglia del ragazzo e sull’onestà dei suoi membri. Su una cosa mia madre non si era sbagliata: Emma era stata sempre rispettata. Ma io conoscevo mia sorella, la parte più giocosa del suo carattere sopiva e appoggiare Filippo nella sua scelta era stata per lei una ribellione, un modo per riportare alla luce il suo estro, la sua curiosità, l’allegria che, da ragazze, ci avevano visto complici in tanti sogni a occhi aperti.
Lorenzo faceva parte di quella generazione di uomini per i quali l’amore si faceva a pagamento, perché con ‘quelle donne’ si poteva trasgredire, alla moglie si portava rispetto e non si potevano chiedere certe cose. A lei bisognava garantire un tetto sulle spalle, farla vivere senza problemi e farsi fare dei figli.
Io non la pensavo così: mi ero sempre ribellata a questa apparente tranquillità, vanto dei genitori. Emma non si era ribellata, era la figlia maggiore e doveva essere di esempio alle altre sorelle. Io tante volte avevo pensato che la sua voglia di amare fosse stata soffocata al buio, mordendo le lenzuola.
Mi infastidiva fino alla rabbia si pensasse che una ragazza non potesse riuscire da sola a capire, a scegliere, accettandone le conseguenze, di andare dove la portava il cuore. Ma allora era un comune modo di pensare, non ci si sottraeva a questo giogo se non con un atto di forza che rimaneva poi come un’onta nella propria vita.
Promisi a me stessa di non sposarmi mai con qualcuno che mi venisse imposto e lo dimostrai rifiutando tanti giovani, preoccupando la mia famiglia che, in certi casi, avrebbe visto di buon occhio una mia risposta affermativa. Fui fortunata, quando incontrai tuo padre. Diedi ascolto al mio istinto e al mio sentire. Mi piacquero il suo sguardo, la sua voce, mi riempiva di attenzioni al punto da farmi sentire una principessa. Come un principe mi portò via e, dare ai miei questo dolore, fu come far espiare loro le imposizioni vissute prima da mia sorella.
Era il 1965, con mia sorella Anna ci accorgemmo di essere madri di due belle ragazze. Adesso non eravamo più figlie ma madri e non volevamo commettere gli stessi errori che, a suo tempo, avevano fatto i nostri genitori.
Eravate più attente al vostro aspetto, cominciavate ad avvertire la competizione con le altre ragazze. Dolly aveva qualche anno più di te e fu una sua richiesta a farci prendere atto della realtà. Dolly voleva portare le scarpe con i tacchi. Le sue richieste erano sempre forti e non tollerava una risposta negativa. Io e Anna le rispondemmo di pazientare ancora qualche anno e incautamente portammo ad esempio il tuo disinteresse in merito. Dolly divenne furiosa e uscì sbattendo la porta. Io e mia sorella Anna ci sentimmo schiaffeggiate da quel gesto.
Il giorno successivo, Dolly non rientrò a casa. Dapprima non ci spaventammo, gli ultimi tempi ritardare era diventata quasi una consuetudine, ma quando il buio della sera avvolse ogni strada di quel piccolo paese, riportando a casa piccoli e grandi, uomini e bestie, in cerca di quiete dopo un giorno di pesante lavoro, ci preoccupammo e iniziammo a cercarla ovunque.
Speravamo in un ritardo. Forse si era soffermata con qualcuno, come fanno i giovani che si credono padroni del loro tempo. A quell’età il tempo è una risorsa talmente ampia da poterla sprecare; è quando si comincia a essere in riserva che ci si accorge di averne speso tanto in niente e su questo humus attecchiscono i rimpianti.
Evitavo di guardare negli occhi mia sorella. Da mamma, e lo capisco bene, non poteva stare ad aspettare, così dopo aver messo uno scialletto sulle spalle, andò a cercar sua figlia in tutti i posti in cui era solita sostare mentre tutti i nostri impiegati si divisero lungo le strade per avere un controllo più accurato di tutto il paese, su cui ormai incombeva la notte.
Il paesino era piccolo, con strade acciottolate, quasi tutte in salita. Lo abitavano 4.000 persone, in gran parte contadini. La sera, soprattutto in inverno, faceva buio presto; le donne e i ragazzi rincasavano prima dell’arrivo degli uomini dalla campagna. Uno spiazzo adibito a oratorio e un cinema all’aperto erano i punti di ritrovo dei giovani.
Gli uomini scendevano in piazza, a fumare l’ultima sigaretta della giornata con gli amici.
Piano piano ritornammo tutti a casa con la certezza della fuga di Dolly lasciandoci persi, con grandi sensi di colpa per non averla capita.
Fu una notte senza sonno, ci vide sconfitti e in balia della paura per le mille insidie cui, ignara, poteva andare incontro. Mi sentivo un peso che mi comprimeva il cuore per non aver capito la sua insoddisfazione, i suoi bisogni, le sue gelosie ma soprattutto il fallimento di cui adesso, con la sua sparizione, ci incolpava.
Non mi ero mai chiesta quanta fatica avesse fatto Dolly a vivere, mi erano bastati i suoi sorrisi, i suoi bacini quando le regalavo qualcosa, le sue risate cristalline quando giocavate a farmi illudere che stava crescendo, nonostante tutto, bene e di essere felice. La realtà di quelle ore mi dimostrava invece come le era mancato tutto. L’amore che vogliamo è solo quello che ci manca; anche se siamo stati dimenticati, traditi, rifiutati non possiamo cancellare il bisogno di un amore. Si diventa come le piantine. Nei paesi crescevano lungo i margini degli acciottolati, erbe nate senza cura, senza acqua, spontaneamente. Diventavano grandi ma senza identità, avevano un nome che le raggruppava tutte ‘selvatiche’. Erano resistenti a tutto e la loro prorompente bellezza le faceva preferire ai fiori più pregiati.
Anna era disperata, a ogni minimo rumore trasaliva. Trascorse quella notte seduta su una sedia, con in mano la coroncina del rosario snocciolato grano dopo grano nel silenzio che quella sera urlava più del vento che trascinava nel buio polvere, foglie cadute, storie dimenticate e figli traditi…
Anche se al suo silenzio ero abituata, quella sera avrei voluto sentirmi urlare in faccia quello che mi diceva con gli occhi, la paura di essere rimasta stavolta veramente sola. Perché l’avevo salvata da tanti dolori e sensi di colpa ma non potevo salvarla dalla perdita della persona da lei più amata. Le dissi di non perdere la speranza e lei mi rispose: “essere lasciata era stato il suo destino, non era stata capace di dare un padre a sua figlia e non era stata una buona madre”. Quella rassegnazione mi costrinse a misurarmi con la sorella e la zia che ero stata in tutti quegli anni. Mi piovve addosso ogni singolo momento in cui mi ero sostituita a qualcun altro, ogni sorriso dato in più per compensarne altri mai avuti, la presunzione di aver pensato bastasse amare col cuore per cancellare l’assenza, l’amarezza di un addio, il grigio di una solitudine non cercata.
A nulla valsero i miei tentativi di farle comprendere come lei e io non avremmo mai potuto fare quello che competeva a un padre. Il non dire certe cose a Dolly lo avevamo deciso per metterla al riparo dalla sofferenza e le nostre bugie erano state dette per amore.
Lei mi rispose che non ci sono momenti più giusti per sapere la verità, ma ci sono cuori più o meno capaci di accettarla; inoltre aveva reso la vita di sua figlia un doppione della sua. La sua indole generosa le fece intuire il grande tumulto da me sentito dentro e, superando il suo dolore, mi disse di non dovermi sentire responsabile della sua fuga. Quello schiaffo era solo stato un pretesto per gridare in faccia a tutti che non era mai stata una ragazza felice e ciò che le mancava era più forte di quello che aveva.
Forse stava pagando il prezzo per aver nascosto la sua prima e unica volta che aveva amato alla nostra famiglia; ora sapeva che ai figli si trasmetteva anche la propria sventura.
Gli impiegati di tuo padre setacciarono il paese in lungo e in largo. Nessuno l’aveva vista, sembrava scomparsa nel nulla, quel vuoto che tanto la faceva soffrire adesso ci bruciava sulla pelle come una piaga purulenta.
Il dolore invase la nostra casa e la nostra vita divenne una luce intermittente: a tratti si accendeva lasciandoci vivere e, in altri momenti, si spegneva e con essa anche la nostra voglia di andare avanti. Non credevo di amare così tanto mia nipote e la sua mancanza, assieme alle verità non dette, mi portavano a pensare se comportamenti diversi da parte mia e di Anna avrebbero potuto evitare questo grande dolore.
Anna sembrava invecchiata d’un colpo, ma non erano rughe le sue, si era smagrita e non aveva più il suo portamento fiero, eretto, si era incurvata, quasi a proteggere, a contenere il suo amore di madre più vivo che mai.
Quella figlia scomparsa la sentiva ancora dentro di sé, stava attenta a non disperdere questo afflato perché, in cuor suo, sapeva che era l’unica cosa ancora a tenerla legata a lei e a non farle perdere la speranza.
Avevo bisogno di Emma, della sua saggezza e, grazie a Dio, era tornata da Parigi dove aveva accompagnato Filippo per una visita in cui riponevamo tante speranze. Allontanarmi qualche giorno da casa, da Anna mi avrebbe aiutato a pormi meno domande e la compagnia di Emma poteva rispondere al mio bisogno inconfessato di tenerezza e di rassicurazione.
Mio marito comprensivo, conoscendo il mio carattere, fu quasi sollevato e approvò la mia decisione. Non ti portai con me perché la tua presenza era necessaria ad Anna che forse, occupandosi di te, avrebbe avuto la sensazione di essere ancora utile, mentre tu diventavi oggetto di una razione doppia di amore, di attenzioni e di cure».
«Invece – mi intromisi – mi sarebbe piaciuto venire con te, la mia presenza ti sarebbe stata di aiuto. Anche per me la sparizione di Dolly è stata traumatica; mi sono sentita inutile, l’affetto che avevo per lei non era servito a trattenerla. A questo dolore si aggiungeva quello di vedere zia Anna affranta e senza speranze».
«Volevo parlare da sola con Emma – si giustificò mia madre – scusami, credevo di esaudire un tuo desiderio lasciandoti con zia Anna. Ogni viaggio che mi portava nel mio paese d’origine era per la mia mente un’avventura, mi faceva rivivere scene mai dimenticate.
Amavo quel paesino a misura d’uomo, dove ogni strada era così piccola che affacciarsi a un balcone era quasi entrare nella casa di fronte. Le strade erano ripide e acciottolate, le porte ancora di legno col battacchio e abbassavi la testa mentre camminavi per non impigliarti i capelli nelle lenzuola stese ad asciugare.
La piazza era un fazzoletto dove c’erano di seguito il municipio, la farmacia e la stazione dei carabinieri. Quando veniva qualcuno da fuori, non passava inosservato ma, dopo qualche giorno, l’ostilità lasciava il posto a una controllata cortesia. Ognuno apparteneva a tutti e questo ti faceva sentire meno triste, il dolore si pativa di meno così come, allo stesso modo, non potevi tenere niente solo per te perché era come se tutti ti leggessero dentro.
La corriera arrivava in piazza dopo un viaggio di circa un’ora. L’autista era sempre la stessa persona e si finiva ogni volta per incontrare qualche passeggero conosciuto. Il viaggio diventava così un’amabile conversazione.
Finalmente potevo rilassarmi, andavo incontro al mio passato, in un luogo che conoscevo bene e che era per me un contenitore di ricordi.
All’arrivo, come avveniva sempre, mio cognato mi venne incontro, con una mano prese la mia valigia e con parole affettuose di benvenuto, ci avviammo verso casa sua.
Mia sorella abitava in una casa a tre piani e io, quando ero sua ospite, occupavo una stanza al secondo piano, dove dormivo in un letto di ottone, sotto una coperta bianca lavorata da mia madre all’uncinetto, parte della biancheria data in dote a Emma. Così quando mi stendevo sotto le lenzuola, tiravo sul mento la coperta e mi pareva di sentire il tepore unico delle braccia di mia madre.
Emma mi attendeva sull’uscio e, quando la vidi, in quel momento, avevo bisogno di normalità, quella che ci rende uguali a tanti ma nello stesso tempo unici perché importanti per le persone amate. Mia sorella, dandomi il braccio, mi portò dentro casa dove, guardando le cose di sempre al posto di sempre, mi sentii invadere da un senso di sicurezza, di stabilità. Questo mi riportava a un passato che nessuno avrebbe potuto rubarmi.
Le chiesi di Filippo, perché sapevo che di questo lei aveva bisogno di parlare, e io volevo forse compensare un vuoto riempiendolo di fatti e notizie nuove riguardanti un nipote tanto amavo. Mio cognato capì e ci lasciò saggiamente sole, perché non poteva esserci spazio per nessuno tranne che per noi stesse.
Così ripercorsi insieme a lei quel viaggio che l’aveva portata in un mondo sconosciuto.
«Partimmo per Parigi – iniziò Emma – e, mentre il treno percorreva la distanza che separava l’Italia dalla Francia, pensai come l’amore di una madre riesce, nelle difficoltà, a superare tutto: nel mio caso la paura del nuovo.
In alcuni momenti mi voltavo a guardare dal finestrino e pensavo a quanta vita mi scorreva dinanzi, alle famiglie che vivevano in tutti quei paesi, piccoli e grandi, alle loro gioie e ai loro drammi. Pensavo anche come una madre non vive in maniera simbiotica con suo figlio solo quando lo contiene, ma sempre, quando si affrontano insieme una gioia, un dolore che fanno vibrare quell’indissolubile e misterioso filo con cui sono legati.
I miei occhi tornarono a diapositive antiche più attuali che mai perché la vita, tante volte, si ripete.
Arrivammo col buio e stavolta fui io ad affidarmi a Filippo che, per il lungo viaggiare, era a suo agio ovunque. Avevo sentito parlare di Parigi come di una città romantica, ricca di arte. I francesi, persone di buon gusto, dettavano le regole sulla moda, i loro profumi erano il sogno di tutte le donne. La prima cosa a colpirmi fu il sentirmi sconosciuta in mezzo a tanta gente, la moltitudine di luci colorate, le macchine utili per spostarsi velocemente.
Non mi piacque, invece, l’idea di dover abitare in quei palazzi, mi sarei sentita sospesa con la sensazione di vivere in una scatoletta fatta in serie.
Facevo tante domande, sinceramente stupita, e coinvolgevo Filippo che ben capiva la mia meraviglia.
I paesaggi, la Senna che attraversa la città, i pittori di Montmartre, gli innamorati sotto braccio rendevano molto romantica Parigi. Nonostante tutto fui felice di esserci andata. La clinica privata sembrava una casa molto confortevole e il prof. Thomas Cameron mi piacque molto: una persona distinta, seria, di poche parole; naturalmente, parlava francese.
Ascoltò le risposte di Filippo alle sue domande sui sintomi, poi iniziò la visita. Fu lunga e comprensiva di controlli particolari, effettuati con l’aiuto di macchine usate magistralmente dal professore. La sua diagnosi fu scrupolosa e attenta a non dare false speranze; si dichiarò ottimista e avrebbe prescritto una cura nuova che stava dando eccellenti risultati.
Finalmente ritornò il sorriso sul volto di mio figlio. Telefonò subito alla sua ragazza per renderla partecipe della nostra gioia. In quei giorni, con la speranza che ci rendeva possibilisti, trovammo anche il tempo di visitare la città, rendendomi conto così della diversità esistente tra quel mondo e il nostro.
In questa occasione, scoprii il valore enorme di quella virtù che è la speranza: ti socchiude una porta, consentendo alla luce di filtrare e di rischiarare il buio della disperazione.
Salutai il professore, grata per le sue incoraggianti parole. Non ci era stato garantito niente ma non era neanche stato sentenziato il peggio. Al ritorno, ci aspettava una bella sorpresa: Françoise e Nannina ci accolsero, facendoci provare la gioia di essere a casa, illuminata in ogni angolo, invasa dal profumo delle pietanze preferite da Filippo e ingentilita da fiori freschi che la rendevano più accogliente ogni angolo.
Finalmente una cena non solo a base di buon cibo ma anche di risate, di commenti. Riempivano il vuoto dei giorni trascorsi mentre eravamo via.
Festeggiammo anche i successi di Françoise, la quale consigliò di fare un comunicato stampa per giustificare al pubblico l’assenza di Filippo dalle scene per un tempo al momento, imprecisabile. Era giusto che io tornassi a casa, sapendo di lasciare in buone mani mio figlio. Nannina mi promise di occuparsi della casa e di impegnarsi a fare eseguire scrupolosamente le cure a Filippo.
Salutai Françoise con la promessa, compatibilmente con il suo lavoro, di venire a trascorrere dei momenti con noi. Quando varcai la porta di casa e vidi venirmi incontro mio marito, ebbi la sensazione che fosse più stanco del solito, forse non avevo egoisticamente considerato che anche per lui quel problema era motivo di sofferenza.
Nel suo caso, con un’aggravante: quella di tenersi tutto dentro mentre io avevo potuto condividere le mie ansie e i miei timori con gli altri familiari.»
«Il fiume delle sue parole fu accompagnato dal suono delle campane che, a casa nostra, chiamavamo l’orologio dei poveri.
Era tempo di scendere e approntare la tavola per consumare la cena; mia sorella l’aveva preventivamente preparata per avere più tempo da dedicare a noi. Il mio sguardo si soffermò su mio cognato che stava seguendo ‘La finestra sul mondo’, una delle prime trasmissioni televisive. Da quando suo figlio era diventato famoso, aveva comprato un televisore per vedere ed ascoltare Filippo nei vari concerti. Questo era un segno che la sua iniziale avversione verso la scelta di suo figlio era stata superata.
Mia sorella era un’ottima cuoca e uno dei suoi modi di dirci che ci voleva bene era quello di preparare i piatti da noi preferiti. In questo sostituiva egregiamente la mamma e manteneva vivi i nostri ricordi».
Tutti quegli anni trascorsi nel racconto liberatorio di mia madre erano ora concentrati in così poco tempo, come se nella memoria si accavallassero una sull’altra scene di un film, dove a volte ti è chiaro il ruolo di ognuno, altre volte ti continui a chiedere quale macabra regia stia dietro agli eventi, da renderli così diversi da come li abbiamo immaginati.
I mesi e i giorni, dal momento in cui Dolly era scomparsa, sfumarono in una dimensione in cui c’erano solo il giorno e la notte. Gli anni si susseguirono e ognuno portava dentro un vuoto incolmabile. Quante volte sentire bussare coglieva di sorpresa tutti quanti e gli occhi di ognuno si animavano perché sperava in un ritorno, frutto di ripensamento.
Di quegli anni ricordo che c’era sempre nell’aria un velo di tristezza, zia Anna si era maggiormente chiusa nel suo silenzio. Lei, anche se gli altri non se ne accorgevano, era forse la persona che sentiva di più la mancanza di Dolly. Le mancava la sua leggerezza, la sua vivacità sempre pronta a sdrammatizzare la fatica di certi momenti.
Nonostante il passare del tempo, non avevo perso la speranza di vederla tornare, sarebbe bastato un sorriso, un gesto e tutto sarebbe ritornato come prima.
Mia madre si rammaricò di non aver notato la mia sofferenza e forse, per la prima volta, riconobbe di avere trascurato momenti importanti nella mia vita.
«Guardavamo te – riprese a ricordare mamma − e pensavamo a come potesse essere cambiata Dolly, a come avesse fatto a vivere, a chi si fosse appoggiata nei momenti difficili.
Secondo papà ci lasciavamo vivere e, da persona pratica qual era, non aveva mai interrotto le ricerche. Finalmente, dopo anni, ci furono date notizie che offuscarono la gioia di averla in qualche modo ritrovata.
Dolly viveva in una città a duecento chilometri di distanza. Lavorava in un taverna ristorante dove si esibiva una compagnia di artisti tutte le sere. Era un locale frequentato da donne e soprattutto uomini perché in una stanza nel retro, si giocava. Ecco cosa aveva fatto della sua vita: aveva cercato di venderla a basso prezzo per rabbia verso tutti, compresi noi che l’avevamo protetta, purtroppo non da sé stessa. Dirlo ad Anna sarebbe stato il colpo di grazia! Ancora una volta dovevo assolvere un compito, stavolta il più difficile in assoluto.
Dovevo salvare mia nipote e ridonare a mia sorella sua figlia prima che fosse troppo tardi.
C’era un’altra possibilità e stavolta, superando il mio orgoglio e il mio amor proprio, avrei voluto contattare suo padre, ma mi trattenne il pensiero che Anna potesse non condividere le mie intenzioni.
Era un sabato sera, giorno di maggior lavoro per quel genere di locale e chiesi a mio marito di accompagnarmi in questa missione. Non mi accorsi nemmeno della durata del viaggio, né di esserci fermati per sostituire una ruota.
Pensavo solo a quell’incontro, a dominare i miei istinti e a cercare le parole più giuste per non farla scappare un’altra volta.
Quel locale, escludendo le locandine esposte fuori, sembrava una casa qualsiasi con qualche luce in più. Entrai con timore, tranquillizzata comunque dalla presenza di mio marito, e rimasi in fondo alla sala per confondermi tra il pubblico.
Le ballerine si esibivano muovendosi in maniera ammiccante, suscitando apprezzamenti pesanti da parte del pubblico.
Sperai con tutto il cuore nell’inesattezza delle informazioni avute da mio marito ma mi dovetti subito arrendere quando vidi il presentatore annunciare l’esibizione della più giovane degli artisti.
La donna che vidi era una persona sconosciuta: pesantemente truccata, svestita e sicura di sé nel muoversi. A ogni suo gesto dalla platea si sentivano fischi, pesanti apprezzamenti e l’aria greve di fumo e colori diventava, per me, rarefatta, irrespirabile.
Come prima cosa pensai che se Anna fosse stata con me in quel momento sarebbe morta di dolore, e, seguendo il mio istinto, avrei buttato addosso a mia nipote una coperta e l’avrei portata via. Volevo rivedere la bambina dalle trecce bionde mentre giocava con te e ogni volta al mio arrivo, mi correva incontro dicendo: “zia Mariù, cosa mi hai portato”? I miei pensieri e i miei sentimenti dovevano leggersi chiaramente sul mio viso, tanto che mio marito preoccupato mi chiese se volevo uscire.
Sì, avrei voluto, ma non potevo, una parte del mio cuore era lì, in vendita, e l’altra era a casa nelle vesti di una madre vecchia e stanca confrontarsi tutti i giorni con Dio, convinta che solo Lui potesse perdonarla.
In copertina Giuseppe Veneziano, “La pietà di Michael Jackson”, 2010, olio su tela, cm. 150 x 130, Polo regionale d’arte moderna e contemporanea di Palermo, Palazzo Riso.