La 20^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il terzo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
CAPITOLO 3°
Il buio amplifica il disagio e la sofferenza; l’amica di mamma mi diede un buffetto su una guancia, chiedendomi: «Roberta hai bisogno di qualcosa? Vuoi un bicchiere di latte con il miele?» Aveva capito da donna adulta che stavo conoscendo l’amarezza della vita, che avrei dovuto viverla per poterla capire e un giorno farne uso.
«No, risposi, ma vorrei una lucina per non essere totalmente al buio».
«Certo, ribadì la signora, ho quegli spinotti che si usano nelle stanze dei bambini, vado a prenderne uno».
Ritornò, inserì lo spinotto nella presa e, dopo avermi dato la buona notte, se ne andò. Scendeva la notte ed io ero in una casa non mia, impaurita dall’accaduto, preoccupata di perdere il mio papà. Quando non si hanno braccia che ci abbracciano, dobbiamo alimentare il nostro coraggio usando ciò che abbiamo. Notai che quel lettino era incastrato nel muro e questo mi aiutò a raggomitolarmi su me stessa, con le braccia attorno al corpo a simulare un abbraccio di cui, in quel momento, avrei avuto davvero bisogno.
Purtroppo quell’evento si ripeté per anni, e la sofferenza diventò un’ospite assidua in casa nostra.
La nostra vita era scandita da questi improvvisi ricoveri, anche per periodi lunghi.
Talvolta pensavo: “è strano come si faccia l’abitudine a tutto, anche alla malattia!”
Seminava scompiglio perché l’emergenza succedeva nei momenti più impensati, ma non riuscì a toglierci la serenità che papà dava a tutti. Non perse mai il suo ruolo e con noi non ebbe attimi di debolezza, perfino quando dovette trascorrere su una sedia a rotelle gli ultimi anni della sua vita.
Mi esortava a vivere le cose belle, ad averne memoria e riconoscenza. Per questo non mi sono mai chiesta: “perché il mio papà e non un altro?”
Quelle parole, ancora oggi, le risento e mi esortano a vivere al meglio la vita, ad apprezzarla, senza condizionamenti fino a che si ha la libertà della salute.
La malattia mio padre la sconfisse, non fisicamente, ma mentalmente e soprattutto rimase sempre se stesso. Progettava sempre, la sua vivacità intellettuale sopperiva alla sua immobilità.
Insomma era più lui a prendersi cura di noi che noi di lui.
Fu, ad esempio, una sua iniziativa la casa in montagna.
Trascorrevamo lunghi periodi in quella casa in affitto, perché papà recuperava tanto quando era in convalescenza.
Con la collaborazione del Geometra del Comune, della cui famiglia eravamo amici, papà ne costruì una azzurra, con la parte superiore in legno. Quando seguiva i lavori notavo in lui l’entusiasmo di un bambino che vedeva realizzarsi un suo sogno. Ci contagiava tutti e, a lavori finiti, tutti riconoscemmo che era così perfetta da sembrare uno chalet di marzapane. Quando ci trasferivamo lassù ci sentivamo in vacanza. Appena usciti dall’ingresso, lungo il percorso, c’erano delle tappe obbligate: una sosta era in serra per comprare le amate piante di papà, e l’altra per rifornirci di prodotti locali che consumavamo appena arrivati.
Le mani di papà erano nate per creare.
La casa anche qui era circondata da un tripudio di colori. Non ho più visto delle ortensie così grandi e colorate. L’aria era sempre piena della magia della vita. Ho imparato da papà quanto si è felici nel potere realizzare il sogno di una persona che amiamo quando è ancora un desiderio. Sì, perché alimentiamo la speranza di farlo diventare realtà, e con l’aiuto dell’immaginazione di vederlo realizzato fin nei più piccoli particolari. La realtà uccide il sogno e la fantasia, costringendoci a vivere ciò che sta dinanzi ai nostri occhi, come in un fermo immagine. Più avanti la vita mi avrebbe dimostrato quanta saggezza e verità contenevano le sue parole.
Quella casa aveva il caminetto; una casa di montagna non poteva non averlo, e lui amava stare dinanzi al fuoco e ascoltare la sua musica. Era, senza saperlo, lo psicoterapeuta di se stesso.
In fondo, papà non desiderava niente oltre quello che aveva, e noi eravamo felici così, perché la felicità è accontentarsi anche di poco.
D’inverno quel paesaggio era fatato, avvolto nella sua bianca coltre di neve.
Noi bimbi ci rincorrevamo entrando e uscendo da casa, facendo spazientire la mamma che ci sgridava.
Mio padre seppe rendersi indispensabile anche lì. Organizzava tornei di tennis, feste paesane, tornei calcistici di cui era diventato presidente. A volte pensavo che a scatenare la sua fantasia fosse proprio l’immobilità fisica; il movimento distrae, limita l’osservazione. Quel periodo storico era ideale per mio padre, sognatore per eccellenza.
Era infatti l’epoca in cui si rincorreva il sogno americano.
L’America viveva il mito che un giovane presidente, John Kennedy, alimentava, promettendo la libertà e l’uguaglianza fra gli uomini.
Tutti amavano ed ammiravano un così giovane Presidente. Il sorriso e l’entusiasmo che accompagnavano le sue parole trascendevano dal ruolo e dal potere che rappresentava. Umanizzava il suo ruolo politico e ognuno credeva possibile ciò che sognava.
Parlava di pace e prometteva un futuro di lavoro a tutti i giovani speranzosi di poter vivere in una società più giusta. Con il Comune mio padre fondò un centro sportivo dedicato al Presidente. Era un omaggio alla giovinezza, alla competizione sana, al coraggio che si accompagna alla gioventù, valori contemplati in un mondo migliore.
Prima lo pensò, poi lo costruì, e ne fu talmente orgoglioso da scrivere all’Ambasciata americana.
Per la serie “se ci credi succede” Bob Kennedy rispose a papà, mandandogli una bandiera americana e un po’ di fondi. Così papà ebbe la sua ricompensa. Sia la sua forza di volontà e il suo entusiasmo contagiarono molti che seguirono il suo esempio e tante altre villette si affiancarono alla nostra.