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Romanzi da leggere online: ottavo capitolo di “La voglio gassata”

lunedì 24 Giugno 2019
Anna Rita Barbieri_Storia mai raccontata_olio su tela
Anna Rita Barbieri, «La storia mai raccontata», 2019, cm. 100x100, olio su tela

La 25ª puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con l’ottavo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

 

CAPITOLO 8°

Quanta sofferenza c’era nella vita di mio padre! Eppure non lo vidi mai affranto perché non ne aveva paura. Resisteva ma non si opponeva quando arrivava la crisi, si piegava come un giunco per rialzarsi più forte di prima, quando passava. Mi chiedevo. «Da dove attinge tutta questa forza?»

Poi compresi: dalla sua Fede, dalla gratitudine per avere avuto in dono la vita, da lui definita meravigliosa nonostante la lunga sofferenza. Conobbi la sua spiritualità accompagnandolo tante volte a Lourdes, assieme a quella fiumana di gente in cerca di Dio. C’era la sofferenza, in tutte le sue forme, ma gli occhi dei malati brillavano più della luce delle candele, tenute nelle mani tremolanti.

Gente mortificata nel corpo e nell’anima andava dalla Madre Celeste con una fiduciosa aspettativa. Quando vedi la sofferenza a perdita d’occhio, il tuo orizzonte ha il colore delle lacrime, la tua dignità si fa piccola dinanzi alla grandezza di tanta gente immobile, storpia, apparentemente sana, che nasconde dentro di sé le malattie più voraci, quelle che hanno un solo epilogo: la morte. Tutti si tornava a casa miracolati.

In quella piccola grotta si respirava santità, non esisteva più il tempo, il mondo delle guerre e delle crudeltà; ritornava nei cuori il calore della speranza, la fiducia, e soprattutto la certezza che tutto non finisce con la morte del corpo ma si rinasce in una dimensione diversa. Non sentii mai mio padre chiedere la guarigione, perché si sentiva già miracolato nella piena consapevolezza di una vita comunque meravigliosa, anche se mortificata dalla sofferenza. Non potevi estraniarti da quello che ti circondava e vivevi l’esperienza dell’Amore come dono della bontà.

Si era uomini e donne, vecchi e bambini, senza nomi e cognomi, ma nudi dinanzi a quella dolce Signora che scelse un’umile pastorella per dare il suo messaggio di pace. Anche a Lourdes io e papà vivemmo la bella esperienza dell’incontro, della gioia condivisa seppure in un letto di dolore.

Conoscemmo Rossella e con lei la saggezza del cuore. In quei posti le distanze si accorciano, si annulla qualunque individualismo per essere tutti in uno, con gli stessi bisogni e la voglia di credere. Benché Lourdes per me fosse una vacanza, non rimanevo estranea a ciò che vedevo e sentivo.

Rossella era una ragazza bellissima che non avrebbe mai più camminato. Parlare con lei mi dava serenità, aveva la stessa motivazione per cui mio padre diceva che la vita era meravigliosa. Eravamo accanto lungo la processione, assorbivamo il valore della preghiera e i tantissimi miracoli dell’anima rendevano sopportabile il dolore fisico. Mi colpì molto una frase di Rossella, guardando dei bambini nei polmoni d’acciaio: «Come sono sfortunati quei bambini, hanno fame d’aria!»

Ebbi il coraggio di chiederle: «Come fai Rossella a non disperarti, ad accettare il tuo stato e a pensare alla sofferenza degli altri?». Mi sembrò una domanda banale ma sgorgava dalla mia insufficiente forza di fede. «Tu non potrai più correre, ballare, giocare con i tuoi figli, eppure ti commuove la sofferenza degli altri!»

«Vedi Roberta, mi rispose, il dolore non deve mai annebbiare la mente, bisogna superarlo, scendere in profondità, non dire sempre: io sono, la mia vita, la mia felicità. Noi, se vogliamo, siamo capaci di rispondere alla gentilezza con l’amore e se lo facessimo risolveremmo il 99% dei problemi che ci affliggono».

Tante sue frasi mi fecero pensare e porre tante domande rimaste senza risposta, perché cercavo dentro di me il significato di regalare un sorriso, di dare una speranza, di spendersi per gli altri. Tutto questo era il vero miracolo, e una sera la invitammo a cena a casa nostra. Era una presenza positiva, regalava il suo sorriso, concentrava l‘attenzione degli altri sulla sua espressione, sulle stelle che brillavano in fondo ai suoi occhi e poco importava se quelle gambe erano morte.

Mio fratello, quando ci alzammo, la prese in braccio con naturalezza; sembrava un gesto scontato, ma riferito a lui non lo era. Per la prima volta una sua azione lasciava trasparire un sentimento. Tutti noi eravamo in quel gesto e coccolammo Rossella tutta la sera. Quella serata non pesò su nessuno, perché lei era un’ospite ideale, allegra, intelligente e percepiva l’imbarazzo di certi momenti che spazzava subito via con la sua autoironia.

Mio padre aveva la sua stessa interiorità e si avvertiva la loro complicità, la fede, la speranza, sentimenti che noi normali faticavamo a giustificare in due persone condannate dalla sofferenza. Mio fratello per tutta la serata fu rapito da Rossella, dalla sua serenità, dalle sue battute, dai suoi occhi di bambina innamorata della vita. Lei, con la sua disabilità e la sua accettazione della malattia aveva disarmato mio fratello e le sue certezze. Quella sera, tra ammirazione e amore, lui incontrò per la prima volta sé stesso.

Mia madre, come sempre, fu la prima a capire e, una mattina, dinanzi ad una tazza di caffè, me ne parlò: «Sai Roberta, il tempo trascorso con Rossella è stato un dono per ognuno di noi. Così giovane e bella, eppure tanto saggia e grata alla vita, come tuo padre, nonostante tutto». «Sì mamma, risposi, di lei più che la disabilità colpisce la sua gioia di vivere, il suo non piangersi addosso, la sua profonda fede che, secondo me, è alla base della sua accettazione.»

«Non ho mai visto tuo fratello così rapito da qualcuno. Se ci si può innamorare in una sera, direi che lo è già, ma non so quanto sarebbe in grado di affrontare le difficoltà della vita insieme ad una persona che richiede accudimento, fatica, capacità di non arrendersi mai.»

«Sai mamma, risposi, dici bene. Tu sai quanto costa accettare il dolore, non lasciarsi cogliere di sorpresa dalla sofferenza. Le persone come lei e papà richiedono sì cure, ma in cambio, regalano a chi vive con loro la comprensione di valori che emergono solo se stimolati dagli eventi. Rossella non cammina più con le gambe ma chi la incontra, superato l’impatto del primo momento, se ne dimentica, tanto è coinvolgente con la sua vivacità. Non si smarrisce dinanzi alle reazioni di chi la incontra per la prima volta. Mi piacerebbe che mio fratello se ne innamorasse, sarebbe un arricchimento per lui e per la nostra famiglia.»

Mia madre ribatté: «Non so Roberta, ci vogliono forza e coraggio, l’ammirazione non basta ad affrontare i momenti difficili, e questi sono tanti. Sicuramente una storia con lei lo farebbe crescere ed aprirsi di più agli altri, anche con noi, che per certi aspetti lo conosciamo poco.»

A distanza di anni, mio fratello mi confermò di avere avuto con Rossella una storia breve ma intensa; gli aveva lasciato in dono l’attenzione e la cura per chi amiamo, e gli aveva fatto comprendere come è facile scambiare per amore l’ammirazione, la forza per vivere di chi ha un handicap. Rossella ci aveva fatto comprendere come quella forza era voluta, ricercata e coltivata ogni giorno. I momenti bui lei li aveva e li avrebbe sempre avuti.

Ci vuole spirito di sacrificio per dedicare il proprio tempo a persone come lei, soprattutto nei momenti di fragilità. Quando si ama, dedicarsi all’altro non è un sacrificio, ma la vita è una somma di giorni, di anni che ponendoti continuamente di fronte alle difficoltà, ti può demoralizzare e farti scoprire che l’amore non basta. Mio fratello mi raccontò che Rossella gli parlò di tutto questo con serenità e lui non seppe mai il costo di quella rinuncia.

Io considerai il comportamento di Rossella come una prova d’affetto nei confronti della mia famiglia, che le fu riconoscente per avere insegnato a mio fratello a misurare e valutare i sentimenti e a non cedere al primo impulso. Ho capito che Rossella sarebbe sempre stata un miracolo per chi l’avrebbe incontrata, e sentii in me la certezza che aveva dentro di sé l’amore più grande: quello di Dio. Una sera, a distanza di qualche anno, Rossella telefonò per dire che si sarebbe sposata. Era felice, innamorata e grata per questo nuovo miracolo.

Finalmente la vita la ripagava in parte di quanto le aveva tolto, e lei valutava il presente. Il dolore di non riuscire ad accettare l’immobilità, di non essere più bella per qualcuno, di rinunciare a un figlio era tutto alle spalle perché c’era qualcuno che voleva vivere il suo domani con lei. Ho imparato più in questi viaggi della speranza che in tutte le scuole del mondo. La Bontà non è sterile, se dai avrai.

La vita sgranava i suoi giorni come un rosario e mi accorgevo che volavano via gli anni migliori, i miei sogni irrealizzabili da sola, mi rendevano buie certe serate. Sapevo cosa mi avrebbe potuto aiutare, prendere il telefono e parlare con Giacomo. Tante volte lui aveva raccolto i cocci di una Roberta insoddisfatta, le domande più da ragazzina che da donna. Una volta, in un momento d’incertezza, gli chiesi: «Roberto, cosa conquista di più un uomo, lasciarsi rincorrere o esserci sempre, ad ogni sua voglia?».

Lui, capiva anche queste mie curiosità, il metterlo alla prova e mi rispose: «Roberta penso che ogni uomo abbia le sue regole sentimentali, personalmente adesso sono solo, non c’è nessuno accanto a me, ma l’amore va vissuto insieme, senza strategie, deve essere totalizzante e se così non è ti manca il respiro.»

Roberto capiva i miei eccessivi entusiasmi e quando raggiungevano un livello per me dannoso, li smorzava con i suoi ragionamenti Era un ottimo amico, non chiedeva, era ricco della gioia di donare e non giudicava mai gli altri. Lui aveva perfettamente capito il mio carattere, quel bisogno di sentirmi compresa anche quando giocavo con le parole, quando ero infantile volutamente perché ero alla ricerca di verità.

Avrei voluto lasciare quel lavoro perché mi spegneva la luce interiore e io dovevo stordirmi. Approfittai subito dell’opportunità offertami dall’Azienda: viaggiare. Mi piacevano tutti i sentimenti scatenati da un viaggio: la progettazione, la possibilità di conoscere mondi nuovi, racchiudere il proprio mondo in una valigia. Andare verso nuove albe e nuovi tramonti, provare l’invidia vedendo due innamorati incuranti di ciò che li circondava, la libertà di poter scegliere se fuggire da un posto o restare.

Se le strade potessero parlare, mi dicevo, quella che percorrevo da casa mia all’ufficio, avrebbe raccontato quante volte ero stata tentata di tornare indietro, di fare fughino come a scuola, ma avrebbe anche detto con quanta leggerezza e allegria l’avevo percorsa quando ad attendermi c’era ancora Giacomo. Avevo capito, grazie a lui, che ciò che conta veramente è dentro ognuno di noi, più o meno in profondità, ma è quella l’essenza da valutare per capire se sarai capita, aiutata ad essere migliore, essere in grado di abbracciare un piccolo universo tutto tuo, una famiglia.

Riuscivo a superare quei momenti di nostalgia e solitudine grazie al mio ottimismo.

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