Inizia oggi, con questa 10^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, la lettura romanzo “Silenzi d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca, edito da Edizioni Tracce nel 2011.
Una madre, Mariù, ed una figlia, Lisa, si incontrano, dopo anni di lontananza, di rivalismi, di incomprensioni e silenzi che le avevano rese quasi estranee. Attraverso la voce di Mariù riaffiorano così stralci di passato, personali e familiari che danno a sua figlia Lisa le risposte a tanti perché…
Silenzi d’amore
Con la valigia in mano, mi sentivo un’emigrante che tornava a casa. Ogni pietra di quella facciata, per me, aveva impressi, come calchi, un viso, un sorriso, un pianto. A tenerle unite era stato l’amore che, come il cemento, aveva reso saldi i pezzi delle nostre vite.
Entrai e cominciai a salire i gradini di marmo scuro che accoglievano i miei passi lenti e cadenzati.
Appoggiandomi alla ringhiera in ferro battuto respiravo aria di casa, mi sentivo alitare sul collo il gattino soriano che, da bambina, portavo in braccio e, nello stesso tempo, la parte più vigile di me sapeva che tutto questo era passato. Sentivo profumi di donne acconciate che si davano l’ultimo tocco prima di uscire, odori di pietanze che avevano insegnato al mio palato la bontà e il gusto. Quelle scale erano la galleria del vento della vita che dall’intimità mi conduceva fuori. Attraversandola assumevo contegno, oppure sorridevo gioiosamente all’idea di chi avrei visto appena uscita. Erano tutte presenze che sentivo vicine, compagne di tante avventure che, negli anni, erano diventate ricordi.
Al primo piano, due gradini da scendere, di cui uno sconnesso. Quanti attentati al mio equilibrio quando andavo di fretta, quando la vita era una corsa a volere, a sentire di più, nonostante il tempo da vivere fosse tanto.
Ora salivo piano, non c’era fretta, volevo accorgermi se tutto ciò che ricordavo era esattamente quello che ritrovavo: due stanze, di cui una grande, dove trascorrevamo la maggior parte della giornata. Al centro, una grande tavola in noce, di quelle smerlate con due ripiani nascosti sotto; il copritavolo in velluto di vari colori che, due volte al giorno, veniva sostituito da candide tovaglie per il pranzo e per la cena.
Noi piccoli eravamo sempre gli ultimi ad arrivare e, qualche volta, non ci era concesso di sederci perché dovevamo, dopo aver mostrato le mani, ritornare a lavarle, non erano perfettamente pulite, e l’esortazione a farlo era categorica per quanto muta; si evitava così la sgridata per non rompere l’aria di raccoglimento, la voglia di riunirci attorno ai piatti fumanti, aspirandone il profumo che accentuava la salivazione.
Ognuno sedeva al proprio posto. A capotavola c’era sempre papà, dinanzi al quale veniva appoggiata la zuppiera con la minestra. Dopo aver fatto fare a tutti il segno della croce, la mamma lo serviva per primo, poi tutti gli altri e infine riempiva il suo piatto con quello che rimaneva. Talvolta non iniziavo a mangiare per paura che la minestra non bastasse e mamma rimanesse senza. La vedevo guardarci tutti con uno sguardo indagatore, per capire se la pietanza era stata cucinata a dovere. Una madre vive di sguardi, di sorrisi, dei mille modi con i quali si può dirle: «Ti voglio bene». Quelli più attesi erano dei più piccoli, perché più immediati, più sinceri e lei, quando quello che aveva visto le piaceva, si componeva nella sedia e, dopo essersi segnata, iniziava a mangiare.
Lateralmente, facevano bella mostra di sé i due ampi sparecchia-tavola, con due grandi specchi che sovrastavano il ripiano in marmo e le antine che racchiudevano i preziosi servizi di piatti e di bicchieri. I pavimenti, ad eccezione di quelli della cucina e dei bagni, erano tutti in mattoni arabescati e nel loro insieme componevano disegni che sono rimasti il simbolo di un’epoca. Da ragazza, mi piaceva camminare su quei fiori con le mie ballerine. I soffitti, soprattutto quelli delle camere da letto, erano veri e propri dipinti che, con ventagli, trine e figure mitologiche, rappresentavano le stagioni; gli sfondi azzurri che guardavamo con la stessa meraviglia con cui si guarda qualcosa che ci sovrasta e ci rassicura.
Su un divano vidi seduta mia madre, una donna dall’aspetto sofferente; teneva sulle spalle un po’ curve uno scialletto di lana che mi era molto familiare. Avanzando, sentivo profumo di borotalco, del gelsomino che raccoglievo dai grandi vasi sul balcone e mi mettevo alle orecchie come orecchini. C’era un odore inconfondibile: quello di mia madre.
Mi avvicinai e mi posi dinanzi a lei per ritrovare quello sguardo che, per tanti anni, avevo visto vigile, attento, amorevole, irato, ma unico come lo era lei. Mi sentii più madre che figlia e feci un gesto protettivo come avevo tante volte visto fare a lei. Presi i due lembi dello scialletto che aveva poggiato sulle spalle e li avvicinai come a volerla coprire di più, raccogliendola tra le mie braccia.
Provai un’immensa tenerezza vedendola stanca, pallida, con i capelli bianchi.
Avevo lasciato una mamma altera, curata, elegante, la ritrovavo spenta, triste ma comunque bella.
Si sovrapposero ai miei occhi tante immagini di quel viso con l’aggressività della giovinezza, con la consapevolezza d’incontrare il gusto di chi la guardava, con la stanchezza di un travaglio per aver donato uno di noi alla vita, con la fatica di aver vissuto il dolore profondo, quello che consuma. Eppure la vedevo come la ricordavo: giovane senza rughe, con gli occhi che ti guardano con affetto immutato. Guardai le sue labbra non più vermiglie, risentii il calore con cui si poggiavano sulle mie guance prima di addormentarmi, sentii che le sue braccia non avevano più la forza di stringermi a sé come quando, piccolina, le correvo incontro e lei mi prendeva con decisione per non farmi cadere.
Non riuscimmo a parlare per qualche minuto: lei era sorpresa, io sopraffatta dell’emozione e dai sentimenti. Eravamo madre e figlia, ma anche due donne, due madri e ognuna di noi rivedeva nell’altra se stessa: lei vedeva in me quello che era un tempo e io in lei come sarei diventata.
Non volevo stancarla e, per darle il tempo di recuperare le forze che l’intensità dei sentimenti le sottraeva, parlai per prima: «Ciao, mamma – le dissi guardandola in viso − sono passati tanti anni di lontananza. Rivederti mi fa sentire quanto mi sei realmente mancata, anche se spesso non volevo ammetterlo, indisposta dal fatto che tu riuscivi a starmi lontana. Oggi spero capiremo che cosa ci ha tenuto così distanti.
Lo sai, molti mi dicono che, invecchiando, ti assomiglio sempre di più? Mi rende orgogliosa questo complimento, anche se sono consapevole che nessuno di noi figli è bello come lo eri tu».
Eravamo già entrate in un mondo che ci riportava inevitabilmente indietro e trasalimmo entrambe al rumore del campanello. Fu mia madre ad alzarsi, si affacciò al balconcino della stanza da pranzo dove eravamo, al primo piano, e disse che sarebbe scesa subito. Si rivolse a me, dicendomi: «Lisa, per favore, mi prendi il borsellino? Io intanto raggiungo in fondo alle scale Mimì, mi ha portato la verdura».
Mi alzai e, con fare sicuro, aprii la vetrina posta alle spalle del divano e, in mezzo alle tazze di caffè trovai subito il piccolo portamonete di pelle nera. Feci in fretta per raggiungerla ed esserle vicina mentre scendeva. Salutai Mimì e rimasi a osservare con quanta decisione mia madre si sceglieva la frutta e la verdura, intervenendo direttamente quando non le piaceva quella che il fruttivendolo metteva sulla bilancia. Mi sorprese sentirle dire: «Mimì, mi dia delle albicocche ma quelle che lei sa piacciono a Lisa». Presi le borse con la frutta. Mia madre, chiuso il portone, cercò la mia spalla e insieme ritornammo su. Le scale erano fortunatamente ampie, in marmo di colore scuro e considerai provvidenziale lo corrimano in ferro battuto. Anche la cucina era al primo piano e dava sul cortile interno, al centro del quale c’era una vecchia vasca di pietra con un putto in mezzo che non dava più acqua. Poggiai la verdura e ritornai accanto alla mamma che intanto aveva controllato il resto e rimesso il portamonete al solito posto.
Ripresi il discorso interrotto, continuando: «Mi ricordo, sai mamma, quando ero piccina, mi mettevi i soldi in tasca e nelle mani un bigliettino con su scritto: ‘Crema Venus’. Quella crema e il rossetto rosso erano i tuoi unici trucchi e ti rendevano una donna raffinata ed elegante. A volte, mi facevo prendere in braccio e ti baciavo sulle labbra perché volevo le labbra rosse come le tue. Ti imbarazzava questo gesto, lo giudicavi sconcio per una bambina, e mi insegnavi che il bacio corretto era quello che poggiava le labbra sulla guancia. Quando uscivamo insieme, mi accorgevo di quanti sguardi vogliosi si appoggiavano su di te e io stringevo più forte la tua mano, come a voler dire con orgoglio: “Questa è la mia mamma”.
Mi sembra di somigliarti in tante cose; essendo la più grande mi hai confidato tanti segreti della tua vita, gelosamente custoditi nel mio cuore come un testamento morale, mentre altri li hai tenuti solo per te. Non so se la vita che hai avuto era quella che volevi, ma in ogni caso di certo ci hai tanto amato.
Ho provato parecchie volte tanta rabbia perché non mi sentivo approvata da te e sostenuta in alcune scelte da me fatte. Del mio matrimonio, assieme ai bellissimi ricordi, vedo il tuo viso rigato di lacrime, che mi sono portata dentro per tutti gli anni a venire, con la convinzione di averti dato un grande dolore. In ogni momento critico della mia vita di donna e di madre non ti ho mai avuto accanto e di questo vorrei sapere la ragione. Penso che il rapporto tra una madre e una figlia non debba contemplare la distanza, se ciò accade si insinua in noi il sentimento d’abbandono, ci si sente dei senza patria, esuli».
Per compensare l’amarezza del mio discorso, mi ero abbassata e avevo appoggiato i gomiti sulle sue ginocchia per guardarla in viso e darle modo di vedere come il rancore non mi appartenesse più, volevo solo recuperare le parti mancanti di un pezzo della nostra vita.
Mi prese le mani tra le sue e, pacatamente, cominciò a parlare. Prima di ascoltarla, il tatto mi riportò di nuovo a quando ero piccolina e lei mi raccontava una filastrocca che animava la sua mano: ogni dito era un uccellino al quale lei faceva compiere un’azione diversa piegandolo verso il palmo e tutto finiva con il mio stupore, frutto dell’innocenza. Mi imposi il silenzio della mente e le mie orecchie furono invase dalle sue parole.
«Non c’è mai niente di veramente facile o difficile, ci sono situazioni da noi scelte e situazioni che ci scelgono – cominciò a dire severa − In entrambi i casi si vivono momenti di difficoltà che mettono a dura prova i sentimenti e la capacità di viverli. Il dolore attraversa sempre la vita di ciascuno di noi e di norma lascia quello che abbiamo avuto la capacità di salvare, di difendere malgrado tutto, a volte malgrado noi stessi.
La nostra è stata una bella famiglia ma non sono mancati i problemi e, nonostante tutto, siamo stati fortunati, perché non siamo stati toccati da grandi disgrazie. Per noi donne di un altro tempo, la famiglia era il solo obiettivo della vita, ci si sentiva graziati se si diventava genitori. Ti sentivi predestinata, fin da piccola, a diventare moglie e madre. Io lo sono stata per tre volte, e ogni volta che avveniva il miracolo mi sentivo oggetto di un dono. La diversità dei figli è come l’assaggio di una torta: la prima fetta ti inebria per l’impatto con il sapore, il profumo, il colore, dopo, la novità si stempera e tieni più conto degli ingredienti, della fatica nel farla e della conoscenza della ricetta.
Per seguire papà, ho dovuto lasciare il mio paese, la mia famiglia, mia madre, anche se qui ho trovato tanta gente che mi ha colmato di affetto: le zie, la tata di tuo padre, dei bravi vicini di casa.
Comunque, tutti i distacchi hanno un prezzo, ecco perché non ero contenta di vederti andare così lontano.
Ho pianto il giorno del tuo matrimonio, sì ma le mie lacrime non volevano essere un viatico di dolore per te, la distanza che la tua scelta metteva tra di noi mi avrebbe impedito di aiutarti e di poter condividere i momenti salienti del tuo essere donna.
Nella nostra famiglia non ci sono mai state delle grandi migrazioni, non siamo stati educati agli spostamenti e ci siamo sempre aggrappati l’uno all’altro per trovare la forza di superare i momenti difficili.
Quando sei nata, avevo accanto a me la tua madrina e una carissima amica, ma non c’era mia madre che venne a mancare proprio quel giorno. Come vedi ci accomuna il contesto in cui siamo diventate madri; sei stata la prima donna a nascere in una famiglia di soli maschi e tuo padre era felicissimo di poter attribuire il nome di sua madre a sua figlia.
È vero, a te è stato chiesto sempre di più rispetto agli altri, ma perché sapevamo che eri in grado di poterlo dare. I tuoi fratelli non li ho amati più di te, erano semplicemente più fragili e non volevo che, confrontandosi con te, si sentissero dei perdenti.
La forza della nostra famiglia stava in tutti i suoi componenti. I figli, per i genitori, incarnano il prolungamento della stirpe, del cognome. Vederti andar via ci ha resi più fragili, il tuo apporto alla famiglia era consistente, eri l’unica ad avere raggiunto certi traguardi.
I più anziani, ad uno ad uno, ci lasciarono e, in pochi anni, i posti a tavola rimasero vuoti».
Queste sue parole mi diedero lo spunto per precisare dei fatti che non avevamo mai messo in discussione.
Così le dissi: «Io ricordo solo la rabbia soffocata dentro di me quando mi dicevi che per essere una brava bambina dovevo stare attenta ai fratellini più piccoli. Mi davi la seggiolina, io mi sedevo e controllavo i miei fratelli mentre mi chiedevo: “Perché non posso giocare come loro, io non sono la loro madre!”.
Mi sentivo dire da tutti che ero una brava bambina perché ascoltavo, stavo attenta a non combinare pasticci, non mi sporcavo; e la mia voglia di ridere, di correre, di giocare dov’era finita? I bimbi non possono essere investiti di responsabilità più grandi di loro.
Io mi sono portata dietro questa responsabilità e la sentivo come un dovere. Sono stata, sbagliando, la mamma dei miei fratelli. Avete percepito il mio matrimonio come una imposizione di volontà da parte mia per allontanarmi da voi e dai doveri impropriamente imposti.
Non era così, e ancora una volta ho percepito quel senso di sfiducia che da sempre respiravo attorno a me.
Con i matrimoni le famiglie si ingrandiscono e, di conseguenza, si fortificano: i più piccoli diventano il futuro, i più anziani sono il passato e tutte le storie di vita ruotano attorno a loro come il tessuto della famiglia.
Tu hai permesso alla lontananza geografica di diventare una distanza tra di noi e hai creduto, senza chiedermene mai spiegazione, a fatti che ti venivano riportati, tralasciando le motivazioni di certi comportamenti, ma soprattutto facendoli fermentare dentro di te, al punto da nutrire nei miei confronti rancore e sfiducia.
Nonostante la sofferenza, ho rimosso la rabbia e il dolore dei tuoi comportamenti, anche se non ho mai dimenticato e non ho mai capito perché tu non abbia fatto lo stesso in nome dell’amore che ci legava».
Lei si spiegò dicendo che la lontananza non dà modo di rendersi conto, di giustificarsi e, silenzio dopo silenzio, col passare degli anni, i sentimenti non spariscono ma si ammantano di pensieri nascosti, di distanza, di diffidenza. Poi, per spiegare come nella sua famiglia d’origine esistessero questi strani connubi tra amore e rancore, tra fiducia e diffidenza, continuò: «Tutto quello che accade all’interno di una famiglia viene assorbito, vissuto ed elaborato da ciascun componente in base al proprio carattere, all’esempio e all’insegnamento ricevuti e le ferite ti segnano per tutta la vita.
La diffidenza verso gli altri da me vissuta in prima persona, affonda le radici in fatti lontani che il tempo non è riuscito a farmi dimenticare. La mia famiglia ebbe dei grandi dolori, ma non sai tutto al riguardo. Sai che uno dei miei quattro fratelli venne ucciso per errore, due espatriarono in America e uno soltanto rimase in seno alla famiglia.
«Noi donne eravamo quattro: tua nonna Lia, io, zia Emma e la zia Anna, che è stata per voi come una seconda mamma, essendo venuta a vivere con noi, dividendo con me il peso della famiglia, crescendovi, lavorando senza risparmiarsi in un tempo in cui non esistevano le grandi comodità moderne.
La presenza della zia era molto marcata perché, a causa della meningite avuta da piccola, non sentiva e non riusciva a parlare bene, era quindi facile cadere in fraintendimenti che la facevano spesso arrabbiare anche per delle futilità.
Non è stato facile spiegarvi perché la zia avesse un linguaggio diverso dagli altri e insegnarvi i cenni per parlare con lei. Molte volte questi tentativi sfociavano in vere e proprie liti ed era difficile riconoscere che avevate ragione entrambi. Piano piano questo, chiamiamolo ‘alfabeto’, divenne comune a tutti e fu un sollievo non vedere più la zia disperarsi e vedere voi orgogliosi di riuscire a farvi capire.
L’avete conosciuta già adulta ma non sapevate niente del suo passato.
Era stata una bambina vivace, amata, normale, fino a quando la malattia, allora difficile da curare, non le aveva rubato la vita ma l’aveva privata di due sensi attraverso i quali ognuno si relaziona con tutto il resto del mondo.
Si esprimeva, per ovvi motivi, con una gestualità accentuata e socializzava con tutti al punto che talvolta bisognava sgridarla per imporle dei limiti.
Quando era ragazza, nessuno, guardandola, pensava che fosse portatrice di handicap e, quando se ne accorgevano, tutti rimanevano stupiti. Nonostante la menomazione, piaceva molto ai ragazzi e, essendo anche un po’ vanitosa, leggendo il labiale, capiva quando era oggetto di ammirazione e con consapevolezza e ironia ne parlava con me. È stata molto aiutata dal suo carattere allegro ed estroverso e non tollerava i nostri continui tentativi di proteggerla dalle incomprensioni e dal pettegolezzo. Già, perché anche allora una menomazione diventava oggetto: prima di pettegolezzo, poi di commiserazione, quindi di emarginazione. Mia madre visse tutta la vita dilaniata da questi giri di pietismi, di finta solidarietà.
Noi fratelli cercavamo di proteggere Anna per evitarle delusioni e dolori e, senza accorgercene, diventavamo iperprotettivi, con il risultato che lei si indispettiva.
Lei cresceva e il suo corpo cambiava come mutavano le sue conoscenze, le sue emozioni e i suoi bisogni affettivi. Cercavamo di usare con lei sempre la persuasione, evitavamo di urtarla perché sapevamo che, da ribelle qual era, avrebbe reagito facendo esattamente il contrario di quello che andava fatto.
C’era un ragazzo che le piaceva e conoscevamo tutti bene, perché era amico dei miei fratelli con i quali, saltuariamente, lavorava.
Anna era bella, occhi e capelli neri facevano contrasto con la sua pelle eburnea, vitino da vespa, accentuato dai vestiti in tessuto leggero.
Il giovane si chiamava Giovanni e stimolava sempre la sua parte infantile, portandole dei regalini che nascondeva dietro la schiena: per vincere il regalino Anna doveva indovinare in quale mano fosse nascosto.
Comunque, non sfuggivano a nessuno le attenzioni, gli sguardi, la facilità con cui riuscivano a capirsi, ma soprattutto notavamo la felicità di Anna dopo che si erano parlati.
Per tutti erano solo amici, parola grossa, tuttavia, per definire un rapporto che si basava su qualche battuta o frase provocatoria. Eravamo lontani da quello che un’amicizia vera deve essere: condivisione di sentimenti, di confidenze, di momenti belli e brutti… Se tra donne era difficile essere amiche, a maggior ragione tra donne e uomini non era nemmeno pensabile.
Parliamo di un tempo lontano in cui tra i due sessi c’era ancora molta distanza, così quando nasceva qualcosa già andava oltre il rapporto consentito, si capiva che era subentrato un sentire diverso, un interesse sessuale, un’attrazione fisica, motivo di preoccupazione per le famiglie.
Avevo cominciato a capire che i loro sorrisi erano accentuati e complici, i loro sguardi più intensi e quando, inavvertitamente, si sfioravano, diventavano rossi in viso per l’emozione del contatto.
Provai qualche volta ad accennare ai miei fratelli di un possibile futuro sentimentale di Anna, e mi accorsi che non si erano mai posto il problema. Pensavano l’handicap una condizione tale da non permetterle di vivere una vita normale e non avrebbero tollerato che qualcuno osasse sottometterla».
«Perché – chiesi a mia madre – tu più degli altri fratelli ti sei occupata dei problemi di Anna? Perché con lei eri tanto comprensiva e con me non lo sei stata?».
«Quando avvennero questi fatti – riprese a dire mia madre – io ero ancora in famiglia; mi sembrò naturale occuparmene, le volevo molto bene e desideravo evitarle problemi di relazione, per lei difficoltosi. Sicuramente quell’esperienza mi ha segnato e il mio futuro comportamento nei tuoi riguardi ne è stato condizionato. Nei genitori c’è sempre una iniziale diffidenza verso le persone che i loro figli scelgono come compagni di vita.
Tu, Lisa, andavi lontano, e questo mi avrebbe impedito di esserti vicino. Una breve distanza avrei potuto gestirla ma allontanarmi per più tempo da casa avrebbe creato dei problemi. La mia presenza era necessaria per accudire le due zie di tuo padre, che abitavano con noi.
Mi hai taciuto tante cose per non preoccuparmi e io ho fatto lo stesso. Tuo padre cercava di confortarmi; io, da donna, sapevo che da figlia diventare moglie e madre comportava dei costi. Oggi mi rendo conto che avere scelto di vivere in silenzio certi sentimenti ha creato più dolore che manifestarli».
Era l’imbrunire e, come accadeva da sempre, mia madre mi ricordò di iniziare a preparare la cena. Notai, con compiacimento, che certe abitudini non erano cambiate. Mia madre, per esigenze di salute, non poteva più mangiare qualsiasi cibo, io volentieri mi sarei adeguata.
Ci alzammo e ognuna, sapendo come muoversi, contribuì a preparare una buona cena. Non volli sottrarla a questo compito per farla sentire ancora non solo utile ma necessaria. Mangiai, guardandola nei gesti misurati e pronta ad abbassare gli occhi non appena mi guardavano i suoi. Era contenta di avermi con lei e pensai che basta poco per annullare una distanza di anni.
Sgombrai e riordinai la cucina; il suo pavimento era ancora in mattoni rossi e una parete era interamente occupata da una cucina in muratura, compreso un forno a legna usato per fare il pane e la pizza.
L’esterno era tutto in mattoni e lo spazio non occupato dalle pentole, che si inserivano nelle loro allocazioni, serviva tutto come base di appoggio. In basso c’erano le aperture in ferro da dove si gestiva il fuoco.
In copertina, Giacomo Serpotta (Palermo 1656 -Mentone 1735), “La purezza”, 1703-1704, in onore del grande artista e scultore palermitano Giacomo Serpotta del quale domenica 10 marzo ricorre il 367° anniversario della nascita.