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Sciascia e i “professionisti dell’antimafia”, un messaggio di grande attualità

domenica 28 Aprile 2019
Sciascia Leonardo

Il 10 Gennaio 1987 sul “Corriere della Sera” fu pubblicato un articolo a firma di Leonardo Sciascia, intitolato “I professionisti dell’antimafia”. Un articolo divenuto celeberrimo e che scatenò un’infinità di polemiche, catalizzando l’attenzione dei mass media, dell’opinione pubblica e del dibattito politico del tempo. Ne nacque un tutti contro tutti che generò confusione e insinuò diffusi sospetti anche nei confronti di personalità di spiccata moralità come Paolo Borsellino. Infatti, le parole di Sciascia furono malamente interpretate e abilmente strumentalizzate da parte di chi non vedeva di buon occhio il magistrato e di chi era insofferente per i risultati conseguiti dal “pool antimafia”.

In realtà, con quelle parole, Sciascia aveva inteso puntare il dito su un fenomeno che stava prendendo piede in quegli anni ma di cui ancora non si aveva piena coscienza: i pericoli connessi a un’antimafia di facciata, di vetrina, dove a prevalere erano, in realtà, gli interessi personali. Un’intuizione che è valida ancora oggi, un’antimafia sfruttata da politici, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, imprenditori, prelati e membri di associazioni antimafia, che si presentano come ferventi combattenti del fenomeno mafioso quando invece sono spesso esclusivamente animati dal proprio tornaconto, adoperando a volte l’antimafia per ottenere vantaggi in termini di carriera, di prestigio e visibilità. E le cronache giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato come sia attualissimo il messaggio sciasciano, specie in una terra dove mafia e antimafia hanno spesso convissuto andando a braccetto e strizzandosi l’occhiolino. Dalla politica all’economia, passando a tutti i settori della società.

La polemica non investì soltanto i “professionisti dell’antimafia” ma lo stesso autore. Dobbiamo, infatti, tener conto del contesto dell’epoca: mentre Palermo sanguinava, il maxi processo stava iniziando a dare i suoi primi frutti. Per cui, è ben comprensibile, che nel 1987 quell’articolo indignò fortemente i “Comitati antimafia” che si scagliarono ferocemente contro lo scrittore, definendolo un “quaquaraquà”.

Iniziò una vera e propria campagna di denigrazione ai danni di Sciascia, specie da parte di una certa sinistra e anche da personalità di primo piano del giornalismo: ad esempio, fu aspramente criticato da Eugenio Scalfari e Giampaolo Pansa.

Nonostante i fraintendimenti su Borsellino, il vero obiettivo di Sciascia era attaccare il “Consiglio Superiore della Magistratura” che, a volte, a dire dello scrittore, non aveva applicato le norme interne che regolavano la carriera dei magistrati, come quando Borsellino fu preferito ad un suo collega, in teoria con più titoli, per ricoprire l’ufficio di procuratore a Marsala. L’attacco fornì, però, un formidabile assist di strumentalizzazione a quella corrente della magistratura che non vedeva di buon occhio il giudice e nemmeno il pool antimafia. Tanto è vero che, un anno dopo, venne negata a Giovanni Falcone la direzione dell’ ”Ufficio Istruzione”, con la scusa di scongiurare il proliferare di “professionisti dell’antimafia” all’interno della magistratura.

Sciascia, con il suo articolo, intendeva accendere i riflettori sull’ambiguità di certa antimafia e sulla retorica che spesso domina i discorsi di chi si dichiara paladino della lotta alla mafia. Una retorica che può annebbiare la vista e impedire di avere senso critico. Infatti, lo scrittore sottolineava che, ad esempio, se si volesse criticare, legittimamente, un sindaco o un assessore antimafia, in quanto si ritiene che non abbia fatto bene il proprio lavoro, allora sarebbe facile essere additati come mafiosi. Sciascia cercò quindi di allertare anche sui rischi di un’antimafia che si fa potere, che diventa inattaccabile e non criticabile, in una logica assolutistica e deprecabile: o sei con me o sei contro di me.

A tal proposito, in un’intervista al Tg2, lo scrittore dichiarò “in nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante”. Le parole di Sciascia suonano oggi più che mai di un’attualità incredibile: egli riuscì a percepire prima di chiunque altro cosa c’era al di là dell’orizzonte. Infatti, sono stati tantissimi nell’arco di questi trentadue anni (tanto è passato dalla pubblicazione dell’articolo) coloro che hanno costruito le proprie fortune politiche sull’antimafia di professione per poi rivelarsi impostori, sciacalli, soggetti pronti a sfruttare l’onda emotiva del momento e a proferire parole ornate di tanta falsa commozione ma vuote nella sostanza, in un ripetersi continuo di formule sempre uguali e stereotipate, buone soltanto da pronunciare allo scopo di ottenere uno scrosciante applauso o per ben altri fini.

Sciascia volle anche ricordare, sul “Corriere della Sera”, l’importanza dei fatti, delle azioni al di là delle parole, rivolgendosi, in questo caso, a Leoluca Orlando, già all’epoca sindaco di Palermo, ricordandogli che la “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. Inoltre, Sciascia cercò di evidenziare i rischi legati all’introduzione di procedure d’indagine e procedure processuali speciali, con la concreta possibilità che, in nome della lotta alla mafia, si potesse agire con eccessiva discrezionalità e che di conseguenza si potessero commettere ingiustizie. E poi, voleva mettere in guardia l’opinione pubblica dalle apparenze, da coloro che si riempiono la bocca di belle parole ma che in realtà sventolano la bandiera dell’antimafia solo per acquisire potere. Quando non si tratta di collusi.

Un messaggio, quello sciasciano, che però restò sostanzialmente inascoltato, visto le importanti carriere che si svilupparono nel corso dei trent’anni successivi proprio grazie all’ombrello protettivo del professionismo antimafia.

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