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Strage via D’Amelio, giudici: “La trattativa Stato-mafia accelerò la morte di Borsellino”

giovedì 19 Luglio 2018
TRATTATIVA STATO MAFIA

La corte d’assise di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia emessa il 20 aprile scorso. Il provvedimento è di oltre 5000 pagine ed è stato depositato in tempi record: 90 giorni esatti dal verdetto. Una circostanza che, soprattutto in processi così complessi, accade molto raramente. Per il patto stretto tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra negli anni delle stragi sono stati condannati a vario titolo a pene pesantissime l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, boss e Massimo Ciancimino. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino.

L’invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina dopo la strage di Capaci sarebbe l’elemento di novità che indusse Cosa nostra ad accelerare i tempi dell’eliminazione di Paolo Borsellino. Lo sostengono i giudici della corte d’assise di Palermo che hanno depositato le motivazione della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, – scrivono – in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo“.

Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992“. Lo scrive la corte d’assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Secondo i giudici che hanno condannato l’ex senatore azzurro a 12 anni di carcere per minaccia a Corpo politico dello Stato, la disponibilità dell’imputato a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi pose inoltre “le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi“. La corte, dunque, ha accolto la tesi della procura secondo la quale Dell’Utri sarebbe stato la “cinghia di trasmissione” della minaccia di Cosa nostra all’ex premier.

I giudici, poi, specificano che perché sussista il reato di minaccia a Corpo politico dello Stato non è necessario che la minaccia abbuia effetti concreti, “ma è sufficiente che sia stata percepita dal soggetto passivo“. Cioè non è necessario che gli interventi legislativi del Governo Berlusconi o in sede parlamentare di Forza Italia “siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di auotodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa“.

Se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano“, continuano i giudici della corte d’assise di Palermo.

L’ex senatore, secondo i giudici, ha svolto con continuità almeno fino al 1994 il ruolo di intermediario tra interessi di Cosa nostra e quelli di Berlusconi e ciò sarebbe dimostrato dall’esborso di ingenti somme di denaro da parte delle società di Berlusconi poi versate o fatte arrivare a Cosa nostra.

Tali pagamenti sono proseguiti almeno fino a dicembre del 1994 – scrivono i giudici – quando a Di Natale (mafioso ndr) fu fatto annotare il pagamento di 250 milioni nel libro mastro che questi gestiva”.

“Si ha la conferma – prosegue la sentenza – che sino alla predetta data Dell’Utri, che faceva da intermediario di cosa nostra per i pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle a cosa nostra“.

La corte conclude che “vi è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche al riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano (mafioso che lavorò come stalliere per Berlusconi ndr) per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo“. Ne sarebbero prova le dichiarazioni del pentito Cucuzza che dice che Dell’Utri informò Mangano di una modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia.

Ciò dimostra – prosegue la corte – che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori“.

Non c’è nessuna prova che l’ex ministro Nicola Mancino abbia chiesto di diventare ministro dell’Interno con l’intenzione di scalzare il suo predecessore Vincenzo Scotti per attuare una politica più morbida nei confronti della mafia. E’ il giudizio della corte d’assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. L’ex ministro era imputato di falsa testimonianza, ed è stato assolto.

Nella ipotesi dell’accusa l’avvicendamento tra Scotti e Mancino alla guida del Viminale sarebbe stata un pezzo della trattativa tra pezzi dello Stato e cosa nostra passata anche attraverso la scelta di politici più “morbidi” verso le cosche da mettere nei posti chiave. Mancino ha sempre negato che dietro la sua ascesa al Viminale ci fosse questa motivazione, secondo i pm mentendo. Ma per la Corte essendo falsa la premessa, e che cioè la sostituzione di Scotti fosse dipesa dall’intenzione di attenuare il contrasto alle cosche cade, anche l’accusa di falsa testimonianza a Mancino.

I giudici credono all’ex ministro dunque anche se stigmatizzano le dinamiche interne della Dc “partito nel quale non sempre era riconducibile a logica le determinazioni maturate” perché spesso le “decisioni prese dipendevano dal regolamento dei rapporti di forza tra correnti che operavano non infrequentemente nella logica dell’accaparramento di potere“.

La corte “smonta” poi le tesi dei legali degli imputati che attribuivano l’accelerazione dei tempi della strage all’indagine mafia-appalti che il magistrato stava effettuando e anche alla possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.

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