Tra le varie tornate elettori che si susseguiranno nel corso del 2024, le urne si apriranno anche per il rinnovo di alcuni consigli regionali.
La lunga staffetta partirà con la Sardegna il 25 febbraio, per poi proseguire il 10 marzo in Abruzzo e l’8 e il 9 giugno, in concomitanza con il voto per le europee, in Basilicata, Piemonte e Umbria. Nel vortice dell’opinione pubblica, oltre il consueto tiro alla fune tra i partiti per avere la meglio sul nome del candidato governatore, regna il dibattito sull’interpretazione del terzo mandato.
Il “problema” non sembra interessare strettamente da vicino la Sicilia. L’Isola, per varie vicissitudini politiche, quasi mai si è posta la questione di riconfermare, anche per una seconda volta, il proprio inquilino a Palazzo d’Orleans dal 2001 a oggi (unica eccezione Cuffaro presidente dal 2001 al 2006) ma dal punto di vista normativo è naturalmente chiamata in causa al pari delle altre regioni.
Ma da cosa nascono le incomprensioni e i dibattiti? La normativa nazionale, la legge 165-2004, art. 2 c. 1 lett. f., che recita: “… le regioni disciplinano con legge i casi di ineleggibilità nei limiti dei seguenti principi fondamentali: […] f) previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto […]“. Tirando le somme, le stesse direttive sono seguite dai candidati sindaci e sono sempre state rispettate, dal 1993. Esempio molto pratico e tutto siciliano è Leoluca Orlando, che al termine del secondo mandato consecutivo non ha potuto rilanciare la sua corsa a primo cittadino di Palermo. Qualora volesse riprovarci (per l’ennesima volta) dovrà attendere la fine del quadriennio del suo successore. Viene dunque da chiedersi perché lo stesso limite adottato dai Comuni faccia così tanto clamore proiettata a livello regionale.
Le regole generali per l’elezione dei consigli e dei presidenti di Regione, da applicare nel caso in cui ogni Regione non avesse adottato regole proprie, furono fissate nel 1995 con la legge “Tatarella”. Il freno a mano sui mandati fu tirato appunto nel 2004, durante il secondo governo Berlusconi, affidando però alle Regioni il compito di attuare questo limite. Un “dettaglio“, quest’ultimo, di cui probabilmente ne è scaturito un vero e proprio abuso, tra astuzie e “giochini“.
Premiare il lavoro condotto e garantire una continuità amministrativa o, volendo pensare in maniera maligna, la voglia di non scollarsi dalla poltrona?
Ma andiamo per ordine. Tra chi, legge alla mano, resterà orfano del proprio incarico e sarà costretto ad aspettare prima di tornare al timone della propria Regione ci sono: De Luca (Campania), Bonaccini (Emilia-Romagna), Fedriga (Friuli-Venezia Giulia), Toti (Liguria), Fontana (Lombardia) e Zaia (Veneto). Dopo casi storici, come quello di Formigoni, presidente per quattro mandati dal 1995 al 2013, ultimo a fare rumore è stato il governatore veneto quota Lega. Eletto per la prima volta nel 2010, Zaia è stato rieletto per il terzo mandato consecutivo nel 2020. Ciò è stato possibile grazie a due elementi: il primo perché la Regione ha applicato il limite dei due mandati nel 2012, con l’approvazione della legge elettorale regionale, il secondo perché la norma non può essere retroattiva e il primo mandato di Zaia, quello tra il 2010 e il 2015, non è stato dunque conteggiato nel totale. Terminato il mandato attuale, però, non potrà comunque più candidarsi. A tenere banco saranno ben presto Emiliano, Toti e De Luca. Puglia, Liguria e Campania non hanno infatti recepito la legge e qualora uno dei tre decidesse di rimettersi in gioco si ritroverà, con ogni probabilità, faccia a faccia con la Corte costituzionale.
E la Sicilia? Lo Statuto della Regione Siciliana non ha tardato a mettersi in linea con il quadro nazionale e l’art. 9 c. 4 recita chiaramente: “La carica di Presidente della Regione può essere ricoperta per non più di due mandati consecutivi“.
L’argomento resterà ancora per parecchio tempo al centro del dibattito. Anche all’interno della maggioranza qualche spaccatura è già emersa, mischiando le carte in tavola tra centrodestra e opposizione, trasformandosi più in una questione personale piuttosto che in una linea ideologica e politica.