Luca Guadagnino, con il suo nono film “Challengers“, torna alla regia, ma verrebbe quasi da dire “esordisce”. Sì perché la voglia e l’energia che il regista palermitano mette nel suo ultimo film non sembra quella di un navigato film-maker 52enne, ma piuttosto quella di un giovane che ha tutto da dimostrare, e che osa, sperimenta e mette alla prova lo spettatore. Nel suo ultimo Challengers, uscito al cinema in questi giorni, Guadagnino si mette alla prova e inventa movimenti arditi di camera, soggettive improbabili della pallina da tennis, piani temporali che si sovrappongono, tutto e di più come se avesse tanto da dimostrare e volesse allo stesso tempo, far percepire allo spettatore un genuino divertimento nel giocare con la macchina da presa.
La trama
Nella finale di un torneo challenger di tennis (uno dei tanti tornei internazionali maschili di seconda categoria) si scontrano Art Donaldson (Mike Faist), ricco campione ma ormai in una fase calante della sua carriera, e lo squattrinato sfidante Patrick Zweig (Joshn O’Connor). Art è allenato dall’affascinante moglie Tashi (Zendaya), ex campionessa che in passato ha subito un grave infortunio e si è dovuta ritirare dallo sport giocato.
Attraverso flashback e flashforward, scopriremo che Art e Patrick erano amici fraterni e vecchi compagni di squadra, ma che a seguito dell’incontro fulminante con Tashi, vedranno rompere la loro amicizia, essendosi perdutamente innamorati della stessa ragazza. Quella che sarà la finale di uno tra i tanti tornei, verrebbe da dire “minori”, si trasformerà in un incontro agguerritissimo e importantissimo dal punto di vista personale, che segnerà in un modo o nell’altro la vita dei tre protagonisti.
La recensione
Guadagnino si inserisce nel lungo filone del ménage à trois cinematografico. Da ”Jules e Jim“ fino ad arrivare al nostro Bertolucci con il suo “The dreamers”, il regista palermitano, da grande cinefilo quale è, ruba dai grandi maestri, ma fa sua una materia a lui estremamente congeniale. Già con i recenti “Call me by your name“ e “Bones and all“, avevamo capito che ciò che interessa davvero al nostro regista sono i rapporti umani, amori impossibili e la passione ed i sentimenti in grado di passare attraverso giovani corpi con una sessualità tutta da scoprire. “Ma stiamo ancora parlando di tennis?” questa una delle battute più ricorrenti del film. Il tennis del film infatti è chiara metafora dei rapporti umani tra i protagonisti. Guadagnino gioca con la macchina da presa ed osa con dei piani temporali che fanno avanti ed indietro nel tempo quasi a mimare un rapporto sessuale che culminerà nell’ultimo eccitantissimo atto al cardiopalma. Pochi registi come lui oggi hanno questa capacità di inquadrare i corpi come il nostro regista. Una sessualità ed un eros che sprizza da ogni frame. I polpacci, il sudore, le mani che stringono forte la racchetta, tutto è inquadrato con una tale sapienza e sempre con una tale eleganza da risultare sempre estremamente erotico ma mai volgare.
Guadagnino sa quello che fa, e si diverte come un giovane 23enne alla sua prima esperienza che ha voglia di mostrare a tutti la freschezza e la giovane potenza della sua regia. Da grande regista quale è conosce l’importanza di ogni singolo comparto e lo esalta. Dalla recitazione, inutile elogiare il trio di giovani attori di questo film in splendida forma, alla fotografia, la sceneggiatura, fino ad arrivare al sonoro. “STOCK”! La pallina che rimbalza sulla racchetta è uno schiaffo che arriva ad ogni cambio di scena e che rimbomba forte nelle orecchie. Impossibile non citare poi la quasi onnipresente colonna sonora originale di questo film, ancora una volta composta dal duo Trent Reznor e Atticus Ross, che il regista italiano aveva già utilizzato nel precedente Bones and All. Un techno-pop martellante ed elettrizzante che non può che far rimanere col fiato sospeso ad ogni batti becco, ad ogni scambio, battuta, dritto e rovescio. “Ma stiamo ancora parlando di tennis?”, sì il tennis nel film c’è e si vede. Una storia quindi di sport, ambizioni ed ossessioni fuori e dentro il campo da gioco. Un eccitante triangolo amoroso giocato dentro un rettangolo infuocato all’ultimo colpo di racchetta.
Il film non è comunque certo esente da difetti, come quasi del resto tutti i suoi precedenti lavori. Ma sono difetti che rendono unici i lavori di un regista che crede ancora in un cinema sempre più puro e viscerale, anche con quelle sue storture e le sue imperfezioni che lo rendono unico e personalissimo.