“Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991″.
Lo scrivono i giudici della corte d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza che ha assolto l’ex ministro DC Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato.
La corte smantella la tesi dell’accusa secondo la quale Mannino, minacciato da Cosa nostra per non aver mantenuto i patti, avrebbe avviato, grazie ai suoi rapporti con i carabinieri del Ros, una trattativa finalizzata a dare concessioni ai clan in cambio di una assicurazione sulla vita.
“Tutte le fonti, sia quelle dirette (il generale Mori e il colonnello De Donno) sentite in epoca per loro non sospetta come testimoni di una vicenda ancora lontana dal partorire le indagini a loro carico, sia quelle indirette e provenienti, peraltro, da personalità istituzionali di pacifica onestà e integrità morale, sono risultate convergenti nel descrivere l’iniziativa assunta dal R.O.S. come un’operazione investigativa di polizia giudiziaria”.
La corte d’appello di Palermo, che oggi ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha assolto l’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, smonta la tesi del patto stretto dai carabinieri del Ros con la mafia, per il tramite dell’ex sindaco Vito Ciancimino. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, boss come Leoluca Bagarella ed ex politici come Marcello Dell’Utri, processati separatamente, al contrario di Mannino sono stati condannati, a pene severissime.
La corte ricorda che l’iniziativa del Ros di avvicinare Ciancimino fu “comunicata al loro diretto superiore gerarchico, che allora era il generale Subranni e fu realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino (per mantenere la quale era stata chiesta quella ‘copertura politica’ intesa in tale esclusivo senso – cioè l’assecondare, ove possibile, le richieste nell’interesse del Ciancimino, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla Ferraro, da Martelli e dallo stesso Violante (che, invero, rifiutò il contatto personale, indirizzandolo verso i canali istituzionali) con la sollecitazione di un’attività di infiltrazione in ‘cosa nostra’ di Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, tanto al fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi”.
“Nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal colonnello Mori per favorire la collaborazione di Ciancimino – scrivono i magistrati – ha fatto invece riferimento ad un preesistente ‘mandato’ politico (quello asseritamente costituito da Mannino, secondo la pubblica accusa) che gli alti ufficiali avrebbero posto a giustificazione di quell’operazione ma, al contrario, hanno tutte univocamente indicato in una richiesta di sostegno ‘politico’ ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando, ove possibile, le richieste di benefici personali per Ciancimino (il passaporto, i propri beni, etc.), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti”.
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