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Trattativa Stato-mafia, dopo 5 anni finisce il processo: i giudici in camera di consiglio. Sentenza a giorni

lunedì 16 Aprile 2018
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PALERMO –  Si è chiusa alle 10,27 di oggi, dopo 5 lunghi anni di dibattimento, il processo sulla presunta Trattativa Stato-mafia. I giudici sono appena entrati in camera di consiglio, nel bunker del carcere Pagliarelli, per decidere sul rinvio a giudizio dei dieci imputati. Ci vorranno dei giorni per arrivare alla sentenza.

Processo Trattativa, imputati [infografica Ansa Centimetri]
Processo Trattativa, imputati [infografica Ansa Centimetri]
Alla sbarra, per una delle pagine più oscure della storia del nostro Paese (la stagione stragista tra il 1992 e il 1994), oltre ai mafiosi Totò Riina, Antonino Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca; il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino; ma anche uomini dello Stato: gli ex ufficiali dell’Arma, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri; l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.

Diversa invece la posizione dell’ex ministro Calogero Mannino, che ha scelto di essere giudicato secondo il rito abbreviato. Estinto, invece, il reato per il padrino corleonese Bernardo Provenzano, morto nell’estate del 2016. La sua posizione era stata comunque stralciata a causa delle gravi condizioni di salute che gli rendevano impossibile seguire il processo. A reggere l’accusa sono i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Lia Sava e Francesco Del Bene.

L’unica cosa certa è che, se non fosse per due mafiosi, Brusca e Spatuzza, e per il figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino, oggi di tutta questa vicenda non ne sapremmo nulla. I cosiddetti “servitori dello Stato” hanno parlato dopo di loro e costretti dalla portata delle loro accuse. Molti i silenzi e i “non ricordo”. E qualcuno, come l’ex ministro Nicola Mancino, rischia la falsa testimonianza.

Dopo le sue brevi dichiarazioni spontanee, la Corte d’assise di Palermo si è ritirata in camera di consiglio per decidere il verdetto.

PM Vittorio TeresiPoco prima c’è stato spazio per una breve e polemica dichiarazione il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, il pm più anziano del pool che ha istruito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ha annunciato, all’ultima udienza del dibattimento, l’intenzione della Procura di non fare repliche dopo le arringhe difensive. Un intervento singolare che esclude ulteriori conclusioni dell’accusa, ma non stempera i toni di un ‘dibattito’ processuale che dall’inizio del dibattimento ha registrato momenti polemici e di scontro tra le parti.

“Dopo difficili consultazioni – ha detto Teresi presente in aula col collega Roberto Tartaglia – ha ritenuto non opportuno fare repliche. La corte può contare su un’ampia panoramica e può valutare che l’ipotesi dell’accusa è provata e non scalfita dalle argomentazioni delle difese”. Il magistrato ha bacchettato “le espressioni estreme e inopportunamente polemiche di alcuni legali che hanno travalicato la dialettica processuale che invece non dovrebbe mai trascendere. Questa dialettica non ci appartiene, la respingiamo e la rimettiamo al mittente”.

Le richieste di pena sono state pesantissime: 15 anni per il generale Mario Mori, 12 per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno, 12 per Marcello Dell’Utri, 6 per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Gaetano Cinà.

Nicola Mancino
Nicola Mancino

Ho sofferto per tutto questo periodo e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità. Non ho mai commesso il reato di falsa testimonianza. A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D’Ambrosio. Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica”.

Mancino si è riferito alle telefonate, intercettate dai pm di Palermo, con l’ex consigliere giuridico del Colle Loris D’Ambrosio in cui l’ex ministro cercava di evitare il confronto, chiesto dalla Procura nel corso di un altro processo a Mori, con l’ex Guardasigilli Claudio Martelli. Intercettazioni che, secondo l’accusa, proverebbero il timore di Mancino nell’affrontare davanti al tribunale l’ex collega che aveva dichiarato di avergli espresso già nel 1992 i suoi dubbi sulla correttezza dell’operato del Ros.

“Per me era un confronto inutile – ha aggiunto – E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l’avocazione dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ma solo il coordinamento dell’azione delle sei procure coinvolte nell’indagine. Basti pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla Procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta”. 

A margine dell’ultima udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia, dopo che la corte d’assise di Palermo si è ritirata in camera di consiglio per la sentenza, l’ex ministro Nicola Mancino, tra i 9 imputati, accusato appunto di falsa testimonianza, ha parlato con i cronisti ricordando lo stato d’animo con cui ha vissuto gli anni del dibattimento. “Per lui è stata molto dura – gli ha fatto eco la sua legale, l’avvocato Nicoletta Piromallo – Qui si è tentata una ricostruzione storica, la corte ora ha gli strumenti per valutare le risultanze processuali”.

Mancino - NapolitanoLa mia posizione di contrasto alla mafia è dimostrata dalla mia storia. Non sono mai stato tenero ha aggiunto Mancino – . Ho proposto da ministro dell’Interno lo scioglimento di 54 consigli comunali per infiltrazioni mafiose e nel 1993 mi opposi all’abolizione del carcere duro”. Rivendica la linea dura tenuta contro Cosa nostra Nicola Mancino che, prima che i giudici di Palermo entrassero in camera di consiglio per la sentenza, ha reso dichiarazioni spontanee al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

L’ex politico ha ricordato la sentenza emessa a carico dell’ex generale del Ros Mario Mori in un processo “clone” a quello sulla trattativa in cui i giudici sostengono che non vi sia “prova che la Dc abbia modificato al linea di contrasto alla criminalità organizzata”.

“Non ho mai chiesto di fare il ministro dell’Interno – ha ricordato tentando di smentire la tesi dei pm che vedrebbe nella sua nomina al Viminale uno degli indizi della trattativa passata per un ammorbidimento delle istituzioni verso la mafia – C’era l’esigenza di non lasciare solo Gava, ammalato, e spostarlo alla presidenza del Gruppo al Senato dove ero stato io fino ad allora”.

Mancino ha brevemente ricordato il suo incontro con Borsellino nel giorno dell’insediamento al Viminale, l’1 luglio del 1992. “Ci stringemmo la mano – ha detto – Non avemmo nemmeno il tempo di parlare”. Infine sullo scontro con Martelli, che l’ha portato all’incriminazione di falsa testimonianza, ha concluso: “perché si crede a Martelli che all’inizio non ricordava neppure se avesse detto a Scotti o a me i suoi dubbi sul Ros e non si crede a me?”.

 

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