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Tribunali e presunti scafisti. Il caso siciliano tra condanne e scarcerazioni

mercoledì 7 Dicembre 2016
Foto Francesco Bellina

Li chiamano presunti scafisti. Accusati di aver condotto barconi di migranti dalle coste libiche al Mediterraneo, lucrando sulle loro ambizioni di salvezza. Un accusa pesante che dal fatidico naufragio del 3 ottobre 2013 sta farcendo le aule dei tribunali siciliani. Da Trapani a Catania, passando per Palermo ed Agrigento: i processi non si contano più.

news_img1_84044_arresto-polizia-scafistiQuotidianamente gli uffici di polizia registrano, schedano e archiviano i volti dei migranti giunti sulle coste italiane e di sbarco in sbarco fioccano i “presunti scafisti”. C’è l’eritreo inchiodato da una testimonianza di ferro, il sudanese indicato da più testimoni e c’è il gambiano visto dalla nave militare che ha soccorso un barcone in difficoltà. L’arcobaleno di contesti è vario, ma le accuse – come in un imbuto – finiscono sempre dinanzi ad un giudice con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Ma non solo. Ieri la Procura di Palermo ha chiesto l’ergastolo per 3 di loro (due algerini ed un libico). Sono accusati di omicidio per aver ucciso 200 persone annegate nel canale di Sicilia. I 3 – assieme ad altri 2 che saranno processati con il rito ordinario –  erano stati arrestati nell’immediato, ma poi il gip (giudice per le indagini preliminari) li aveva scarcerati facendo decadere l’accusa per omicidio. Stesso copione nella “East cost” siciliana con il gup del Tribunale di Catania che il 13 dicembre dovrà giudicare due “presunti scafisti” e uno di loro è accusato di “omicidio plurimo”. Episodi esemplari, aggravati dalla morte di centinaia di persone, ma c’è dell’altro.

A spiegarlo è il Tribunale del Riesame di Catania che ieri ha rimesso in libertà due scafisti arrestati lo scorso 14 novembre in seguito ad uno sbarco avvenuto al porto di Pozzallo. C’è differenza tra “lo ‘scafista professionale’ al soldo di un’organizzazione dedita al traffico di migranti, che può tornare in Libia e reiterare” il reato e “lo ‘scafista occasionale e obbligato’ che nel perseguire il proprio obiettivo personale di raggiungere il territorio italiano come clandestino ha favorito anche l’immigrazione clandestina di terzi”. L’affermazione è contenuta nel provvedimento di scarcerazione per i due, disponendo per entrambi l’obbligo di firma dai carabinieri due volte la settimana e il loro trasferimento nel Cara di Mineo. Per lo ‘scafista occasionale e obbligato‘, secondo il Tribunale del riesame di Catania, scelto poco prima di fare partire dalla Libia dai trafficanti di esseri umani con il compito di tenere la bussola e il telefono satellitare e di appoggio allo ‘scafista professionista’, “non sussiste il pericolo che possa reiterare analoghe condotte” una volta “raggiunto il suo scopo: entrare in Italia”. Quindi non sussistono, per i giudici, le esigenze cautelari per tenerlo in carcere, basta l’obbligo di firma e il trasferimento al Cara di Mineo.

whatsapp-image-2016-09-19-at-17-32-44A Trapani il tribunale ha condannato a sei anni di carcere un senegalese di appena 19 anni per “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”. Al giudice Angelo Pellino è bastata l’audizione di un testimone che nel frattempo era finito in Puglia a raccogliere i pomodori. Gli agenti della Polizia, dopo averlo individuato, lo hanno condotto in aula. “Sono stato per tutto il tempo in stiva – ha detto – e quando sono riemerso l’ho visto condurre l’imbarcazione fino all’arrivo dei soccorsi”. Un’accusa flebile che il sostituto procuratore Andrea Tarondo avrebbe voluto arricchire con la testimonianza di un altro reduce – che intanto dopo essere ritornato in Tunisia era stato nuovamente individuato dai poliziotti – ma la Corte ha valutato “dispendioso” il trasferimento in Italia. L’imputato fino all’ultimo momento ha detto di essere stato “costretto” a prendere il timone, come i sei “presunti scafisti” condannati dallo stesso tribunale di Trapani lo scorso 1 dicembre. “Se non lo avessimo fatto ci avrebbero uccisi”, hanno detto quasi in coro, ma non è bastato per evitarsi otto mesi di carcere. 

 

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