Le vicende singole e collettive, gli stili di vita spagnoleschi, l’esagerazione come segno distintivo, la concezione del tempo marcata da ritmi imprescindibili, segni distintivi di un modo di essere dell’aristocrazia siciliana, hanno affascinato da sempre quanti si sono interessati alla storia della Sicilia.
Non è un caso che il Gattopardo, del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che di tutto questo fa metafora, sia stato il romanzo italiano più venduto nel mondo. A rinverdire quel mondo è, oggi, Giuseppe Giaconia di Migaido, con il suo Vita di un gattopardo (Salvatore Marsala editore), un romanzo che è anche una sorta di diario della storia di un personaggio immaginario, il barone Giovanni Villarosa di Regalcaccia, vissuto fra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del novecento.
L’autore, raffinato rampollo di una famiglia che ha radici nei cavalieri normanni che liberarono la Sicilia dal dominio musulmano e che quindi de la noblesse sicilienne è parte, appare il più indicato a far rivivere questa storia anche se, si potrebbe dire, che corra il rischio di un più che naturale coinvolgimento.
Un rischio ampiamente sventato visto che, nonostante un evidente velo di nostalgia e di rammarico, l’autore non sembra lasciarsi travolgere da simpatie e sentimenti. Nessuno sconto, dunque, per quei vizi che avrebbero portato alla rovina del mondo aristocratico, nessun velo per le evidenti inclinazioni negative come la tendenza allo sperpero, l’orgoglioso rifiuto di accettare il mondo che cambia, i pregiudizi di casta ma tutto scritto con delicatezza di tratto scandita, giorno dopo giorno, in questo diario dell’anima.
Per ottenere questo risultato, Giaconia inventa un personaggio positivo, non il classico barone siciliano che la letteratura ci ha tramandato, cioè un nobile arrogante e insensibile alle vicende umane del mondo che lo circonda, ma al contrario un uomo che, pur geloso della sua condizione sociale, fa della rettitudine la sua cifra identitaria quasi che attraverso questo ideal tipo si potesse trovare un’attenuante per una casta sociale, che storicamente ha sbagliato “quasi tutto”.