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Cesare Mori, il prefetto che mise la mafia ai ferri corti

sabato 10 Novembre 2018

A seguito dell’articolo pubblicato da ilsicilia.it il 5 novembre in merito all’azioje del “prefetto di ferro” Cesare Mori è nato un dibattito sull’efficacia della sua azione repressiva. Pubblichiamo qui un intervento di Francesco Paolo Ciulla. 

mafia-ai-ferri-corti-libroFiumi d’inchiostro sono stati spesi per descrivere l’operazione di repressione portata avanti da Mori. Il 19 Luglio del 2018 ho rimesso alle stampe il libro che Cesare Mori pubblicò nel 1935, “Con la mafia ai ferri corti” perché in questo fiume d’inchiostro nessuno si è più preso la briga di ristampare “l’inchiostro” che lo stesso Mori ha usato per raccontare gli anni che lo hanno visto protagonista.

Il 6 maggio 1924 al Capo del Governo Mussolini basta una battuta di un sindaco per avere chiarissima la gravità del problema mafioso in Sicilia, altri hanno impiegato decenni per farsi convincere dai fiumi di sangue versato dalle vittime, che in Sicilia esistesse un problema con la criminalità organizzata.

Nel giro di pochi giorni ritorna a Roma, a fine mese Mori è nominato Prefetto di Trapani. La scelta ricade su Mori perché era già stato Prefetto a Trapani e quindi conosceva la Sicilia. Piccola nota, Mori fu richiamato in servizio perché era già stato messo a riposo. Dal primo giorno in cui prende servizio in Sicilia, ogni numero del Giornale di Sicilia ci da la cronaca delle sue azioni. Rastrellamenti, arresti, azioni di Pubblica Sicurezza. La provincia di Trapani viene epurata paese per paese, campagna per campagna a cominciare dalla nota Castelvetrano che ancora oggi riempie le cronache di illustri latitanze da decenni.

Alla fine ottobre del 1925 viene trasferito a Palermo, il tempo di partecipare ai festeggiamenti della marcia su Roma e, a partire dal primo Congresso Regionale Agricolo, il 7 dicembre il Giornale di Sicilia comincia la cronaca giornaliera delle azioni decise e coordinate dal Prefetto: arresti, ordinanze, incontri, coordinamenti. Tutti i paesi della provincia di Palermo ricevono la personale dose di arresti: non si occupa solo di Madonie, dove operavano indisturbate, da decenni bande che tenevano nel terrore intere popolazioni, bande che lui sgomina in pochi mesi. Le donne di Gangi gli faranno omaggio di uno scapolare in seta per ringraziarlo. Opera a Palermo, a Corleone, Bagheria, Carini, Bisacquino, in tutta la provincia.

A Bisacquino si occupa di quello che all’epoca era considerato uno dei capi della mafia: Vito Cascioferro; l’uomo che è passato alla storia come l’assassino di Joe Petrosino (mai condannato) e come “l’inventore del pizzo”. Un’invenzione che migliaia e migliaia di commercianti siciliani hanno pagato e pagano tuttora a caro prezzo. Non fa solo arresti. Emette ordinanze per colpire al cuore la rete dei servizi che la mafia gestisce in Sicilia. Drastica riduzione dei porto d’armi, ordinanza sui campieri e sui portieri, marchiatura del bestiame ed obbligo di vaccinazione. Partecipa al congresso dei maestri e li chiama in alleanza per formare le nuove generazioni, ben prima di Gesualdo Bufalino. Confisca i beni dei mafiosi, colpendo i soldi, ben prima della Rognoni La Torre. Colpisce le manifestazioni di ostentazione mafiosa, ben prima degli odierni divieti agli “inchini”. Convoca i campieri della provincia a Roccapalumba, più di mille, ed in una sola mattinata, dopo la celebrazione della Santa Messa, fa sì che essi giurino al servizio dello Stato. Convoca i campieri della Conca d’oro al Politeama, ed in una sola mattinata fa sì che essi giurino al servizio dello Stato. Si occupa delle mogli e dei figli di coloro che fa arrestare sostenendoli nei bisogni. Va in prima linea nelle campagne a controllare il territorio e coordinare le operazioni di Polizia, non era presente a Gangi, come erroneamente racconta il film di Squitieri.

A Gangi c’era Francesco Spanò, uno dei suoi migliori collaboratori. Lo Stato di Diritto esisteva ed era applicato. I mafiosi erano processati. Esistevano i Tribunali, i giudici e gli avvocati difensori. Sempre sul Giornale di Sicilia dell’epoca vi sono paginate giornaliere con i resoconti delle udienze dei più importanti processi. Ricordo a me stesso che il codice penale tuttora in vigore fu emanato dal Ministro Rocco in quegli anni. Non esistevano tribunali del popolo che si occupavano di processi sommari. Nessun mafioso fu condannato a morte. Cambiarono alcuni procedimenti. In primis alla Procura fu messo Luigi Giampietro, altro importante e strategico collaboratore di Mori, che modificò una strana usanza applicata nei tribunali, cioè di ricorrere sempre in appello quando in primo grado gli imputati venivano assolti. E soprattutto cambiò l’atteggiamento dei testimoni, passando dall’omertà assoluta, alla collaborazione, sicuri della protezione che lo Stato ormai garantiva a chi collaborava con la giustizia. Il fascismo combatte la mafia, si dice, per una questione di potere contrapposti o per affermare la propria idea politica. E per farlo fa sciogliere il Pnf di Palermo, perché critica l’azione di Mori e fa processare il suo capo, Alfredo Cucco?? Che poi verrà assolto da ogni addebito. E chi la combatte per semplice bisogno di giustizia?? Vittorio Emanuele Orlando capolista della lista contrapposta a quella fascista che in un comizio per le elezioni del Consiglio Comunale nel luglio del 1925 dichiara testualmente “Se per mafia, infatti, si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma induge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte; se per mafia s’intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo”.  Tutto ciò fu solo propaganda? Un mio amico che vive a Bagheria giorni fa mi raccontava come alcuni esponenti della malavita locale ancora maledicono Mori ed il periodo in cui agì, mentre alcune intercettazioni in questi anni ci hanno fatto ascoltare l’orgoglio di alcuni parenti di killer, rimasti impuniti, che parteciparono ad eccellenti delitti di mafia. Alcuni scapparono in America. Dove a quanto sembra hanno trovato agi e accoglienza da parte dei locali, visto l’utilizzo che gli americani ne fecero al fine di organizzare lo sbarco in Sicilia.

La mafia era stata sgominata, non aveva più libertà di movimento, gli era stata tolta l’acqua che innaffiava i loro loschi affari. Nel Luglio 1943 per avere un supporto logistico gli americani ne hanno chiesto l’aiuto, in cambio gli hanno affidato l’amministrazione di decine e decine di comuni e la gestione di alcuni commerci che immediatamente hanno trasformato in attività criminali.

Tutto questo è colpa di Mori?? Più vado avanti e più mi convinco che per gli storiografi, non tutti per fortuna, la vera colpa di Mori è stata quella di tornare vivo a casa e di avere messo in galera i mafiosi. A quanto sembra l’unico a rimanere vivo nella decennale lotta contro la criminalità mafiosa, perché dal dopoguerra in poi chiunque ha deciso di intraprendere questa lotta è stato ucciso oppure ha pagato a caro prezzo. Chiudo con una frase che ho utilizzato nella nota del curatore all’interno della riedizione da me curata: “Si è passati dai ferri corti ai patti larghi, anzi larghissimi”. Ultima nota: riguardo alla violenza usata da Mori durante gli arresti. Il Ministero degli Interni il 1^ febbraio 1927 gli invia una lettera riservata, dove lo richiama a non usare metodi violenti durante gli arresti e le operazioni di polizia. Il documento è conservato all’Archivio di Stato di Pavia ed è pubblicato in appendice nel libro di Mori”.

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