L’avrebbe investita e sarebbe scappato. E’ questa la tesi del pm Renza Cescon che ha chiesto al giudice monocratico di Palermo, Daniela Vascellaro, la condanna a quattro anni per Pietro Sclafani, il pirata della strada che travolse Tania Valguarnera il 17 maggio del 2015, mentre di domenica andava a lavorare in un call center. Sclafani, accusato di omicidio colposo e omesso soccorso, era stato arrestato poche ore dopo l’incidente, individuato grazie alle telecamere di sorveglianza presenti in via Libertà.
Si ipotizzò che potesse essere alla guida sotto l’effetto di droga, ma poi i test lo hanno escluso. Così come, da alcune perizie, sarebbe emerso che l’uomo non superasse i 50 chilometri orari quel giorno, eliminando così pure l’ipotesi dell’alta velocità. Scartata, poi, attraverso i tabulati telefonici, anche quella secondo cui Scalfani sarebbe stato al cellulare mentre era al volante. Dalle immagini sembrerebbe che Sclafani si sia fermato subito dopo l’impatto, ma secondo il pm il tempo di sosta in via Libertà sarebbe “incompatibile” con l’azione di qualcuno che si ferma per prestare soccorso. In pratica, secondo l’accusa, Sclafani si sarebbe limitato ad accostare rapidamente sul luogo dell’omicidio, scappando subito via. L’uomo, nel corso delle precedenti udienze, aveva chiesto di parlare: “Sono addolorato, in questo momento penso solo alla povera ragazza“. Frasi che, secondo il difensore Ninni Reina, “non sono di circostanza“.
Adesso si attende la sentenza che potrebbe arrivare il 24 gennaio. Il processo si è prolungato per l’attesa della decisione da parte della Corte Costituzionale sulla questione sottoposta alla Consulta dal tribunale di Palermo, dopo la richiesta da parte della difesa dell’imputato: la possibilità (non prevista dal codice) di citare anche in un processo che si svolge con il rito abbreviato – come questo – il responsabile civile, colui cioè che dovrebbe materialmente pagare i danni ai parenti della vittima (in questo caso l’assicurazione di Sclafani), costituita con gli avvocati Ennio Tinaglia, Roberto Bocina e Giuseppe Di Gesare. Secondo la difesa, questo avrebbe determinato dei pregiudizi per alcuni diritti garantiti dalla Costituzione. La Consulta ha giudicato però la questione non fondata perché in ogni caso anche se l’imputato venisse condannato a risarcire i danni potrebbe sempre rivalersi sull’assicurazione con un’azione civile.