Non se la sentiva di arrivare da detenuto al processo sulla trattiva al bunker dell’Ucciardone: Massimo Ciancimino, che quell’aula l’ha vissuta da “super testimone”, ha preferito rimanere in carcere, al Pagliarelli, dove si trova da due giorni dopo l’esecuzione della sentenza definitiva per la detenzione di candelotti di esplosivo. Del resto, il testimone-imputato ha partecipato poco al processo, vendendo quasi soltanto nelle udienze in cui ha deposto (una decina). Questa mattina ha rinunciato a partecipare all’udienza, nel processo nel quale è imputato di concorso in associazione mafiosa e calunnia. Proprio per queste accuse, ai quattro anni e cinque mesi che dovrà scontare si potrebbero sommare altre pene. Il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo è uno dei principali testimoni dell’accusa e, con le sue rivelazioni, ha consentito l’apertura dell’indagine da cui è scaturito il processo in corso.
Nell’udienza di oggi ha deposto il collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Di Giacomo che ha parlato di un direttorio “ristretto” composto del gotha di Cosa nostra palermitana e di qualche esponente della mafia catanese che avrebbe deciso, dopo la delusione determinata dall’esito del maxiprocesso in Cassazione, la stagione delle stragi. E contro la dura e inattesa reazione dello Stato agli attentati a Falcone e Borsellino e all’introduzione del 41 bis avrebbe risposto con altre bombe.
Di Giacomo ha raccontato della sua appartenenza al clan catanese dei Laudani, del suo forte legame coi boss storici della cosca e col loro luogotenente Santo Mazzei (in foto), particolarmente vicino a Bagarella in quanto entrambi di estrema destra. Un ristretto gruppo di capimafia, tra cui Riina, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro – ha sostenuto – all’indomani del maxi processo, nel ’91, decise di portare avanti “un attacco al cuore dello Stato”. Si cominciò con le stragi del ’92. “Ci aspettavamo che lo Stato capitolasse – ha detto – e invece istituzionalizzò il 41 bis e allora cercammo di farli tornare indietro con le bombe del ’93 a Roma, Milano e Firenze, ma anche con una serie di omicidi di rappresentanti dello Stato: carabinieri, guardie penitenziarie e atti intimidatori come il proiettile fatto trovare nel giardino dei Boboli“. Parole, quelle del pentito, che confermerebbero una delle parti centrali dell’impianto accusatorio, cioè che gli attentati del ’93 e la prosecuzione della strategia stragista avevano lo scopo di tenere sotto scacco lo Stato per farlo retrocedere sul carcere duro. “Graviano – ha concluso – mi disse che a un certo punto non si era andati avanti con le stragi perché si era trovato un accordo”