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La Frittella, fresco inno alla primavera

lunedì 13 Marzo 2017

‘-Carissimo Ugo, come la ritrovi Palermo ? -Bellissima, e poi questo tiepido sole, qui,i ha una luce diversa. E’ proprio vero la primavera qui si vive, si respira, si gusta, oserei dire. – Giusto, qua in Sicilia il “Tempu nnu manciamu”, le stagioni ancora hanno un gusto particolare. E oggi PRIMAVERA voglio farti gustare. Oggi mangeremo la FRITTELLA ! – No, niente fritti ancora, BASTA, io voglio continuare questo giro di Sicilia in buona salute. – Tranquillo, niente di fritto. Questa non è una leccornia dolce spolverata di zucchero o polvere di cacao, ma un vero inno alla primavera e per giunta “fresca”. Infatti il nome di questa minestra non viene da “FRITTU”, ma da “FRIDDU” non nel senso del freddo vero e proprio, ma del NON CALDO. La FRITTELLA è un piatto da non mangiare caldo, perché devi sentire il fresco profumo del finocchietto di montagna che strilla l’arrivo di PRIMAVERA.

Devi sentire la musica croccante delle fave “scricchiate” e dei piselli “munnati”, devi vivere il gusto dolce dei carciofi, che in questo periodo dell’anno raggiungono la loro completa maturazione che manifestano con una timida barbetta. La FRITTELLA è una vera e propria ode alla Giovinezza, e, qui, in Sicilia, sempre giovani restiamo, caro Ugo. – E va bene, anche questa volta mi hai convinto, ma cos’è allora questa minestra? – Vedi, Ugo l’ho definita impropriamente così, ma come può stringersi dentro i confini di una parola la forza del risveglio della Natura ? La FRITTELLA è il modo di esorcizzare l’ INVERNO, di cacciarlo via. E’ il modo per gustare la freschezza colorata di verde della natura che si sveglia dal letargo colore della terra brulla. Si racconta che la inventò una giovane mamma che aveva temuto di perdere i figli per una brutta polmonite dopo un inverno particolarmente rigido.

Pampinedda, così era soprannominata Maria Cavallaro, la donna che cucinò per prima la FRITTELLA. Era l’ inverno del 1412, il quinto di una serie di inverni rigidissimi, il freddo quell’anno sembrava non finire mai. Legrotte della Serra della Pizzuta e del Pelavet traboccavano di neve, la temperatura era scesa fino a dieci gradi sottozero per più di quattordici giorni e la polmonite aveva falcidiato anziani, donne, bambini tra i più poveri. In città era più difficile difendersi dal freddo per coloro che non abitavano case degne di questo nome, per tutti quelli che sopravvivevano nei catoi fatti di frasche e fango. Pampinedda con la sua famiglia viveva proprio in uno di questi catoi in quella zono che oggi individueremmo tra il vicolo Pirriaturi e le catacombe di Porta d’Ossuna. In quella zona allora era la depressione del Papireto e a ridosso del fiume esistevano tantissimi orti, dove si coltivavano a seconda della stagione legumi e ortaggi poveri infestati dal finocchietto che a primavera con il suo aroma pungente annunciava la primavera. Ora, questa donna, straziata per la malattia dei suoi figli li condusse ormai agonizzanti al “Chiano di Sant’Oliva” dove sorgeva la chiesa dedicata alla Patrona e lì si compì il miracolo, dopo l’aspersione con l’acqua i ragazzi furono salvi.

La notte in sogno la Santa stessa sembra abbia dato la ricetta a Maria “Pampinedda” ordinandole di andare a raccogliere i quattro ingredienti e di cucinare questa zuppa da distribuire a tutti i poveri della sua borgata in ringraziamento della grazia ricevuta, ed eccoti la ricetta : – Scricchiate le fave e munnate i piseddi, sbucciate fave e piselli, avendo cura per le prime di togliere anche la seconda cuticola, pulite i carciofi, togliendo le punte le foglie dure e quella piccola barbetta, tagliateli a spicchi e lasciateli in acqua col limone. In un tegame fate rosolare una cipolla tagliata sottile con un goccio d’olio di frantoio. Appena imbiondita la cipolla aggiungete i carciofi scolati, le fave e i piselli e coprite con acqua calda dove è stato lessato abbondante finocchietto, lasciate cucinare a fuoco dolcissimo per una ventina di minuti e a cottura ultimata aggiustate di sale e pepe.

Buon Appetito.

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