In Italia si discute molto di fondi europei. Da tema esclusivamente per addetti ai lavori, è oggi diventato argomento di confronto e discussione politica che appassiona il grande pubblico. Ma la discussione si è spesso ancorata su aspetti relativamente marginali, tra cui spicca la domanda tormentone che attraversa gli anni conclusivi di un ciclo di programmazione sulla quota di risorse complessivamente spesa. O la spasmodica ricerca di una primogenitura sulle informazioni sui “bandi in uscita”, quasi che gli addetti ai lavori fossero detentori di un pin attraverso al quale si accede alle risorse (spesso senza avere alcuna idea di quale obiettivo si vuole perseguire attraverso i fondi oltre quella di accedere alle risorse).
E pochissima attenzione, invece, ai risultati in termini di sviluppo che si intende conseguire e al ruolo effettivo che le politiche europee stanno avendo nel cambiamento dell’operato delle classi dirigenti. O a quanto necessario ed irrinunciabile sia il sostegno dell’Europa per cambiare rotta alle politiche nazionali, dirette a sostenere i territori economicamente più deboli e che presentano i maggiori deficit in termini di servizi alla comunità e di opportunità per i cittadini.
Nel Mezzogiorno, i fondi europei hanno assunto da tempo un ruolo determinante. Le risorse comunitarie e nazionali per la coesione rappresentano infatti oggi la voce più significativa della spesa in conto capitale nel Sud. Dall’analisi dei dati dei Conti pubblici territoriali emerge quanto mai chiara la crescente “dipendenza” del Mezzogiorno dai fondi strutturali, giunta nel 2015 a circa il 72%. Di ciò è ben consapevole il governo nazionale che ha messo in campo negli ultimi anni un set straordinario di misure per il Sud, tra cui il Masterplan del Mezzogiorno (Patti per il Sud), sgravi contributivi, credito di imposta, zone economiche speciali, contratti di sviluppo, e per ultimo la soglia minima per gli investimenti ordinari da destinare al Sud pari al peso statistico della sua popolazione sul totale di quella nazionale (la cd clausola del 34% prevista nella Legge Mezzogiorno).
Eppure è diffusa la credenza che l’Europa “non aiuti” lo sviluppo delle regioni del Sud ma sia un luogo che detta solo regole e limitazioni; lontana dalle necessità reali delle regioni beneficiarie.
Forse, il primo ostacolo culturale è proprio “scambiare” i fondi europei come il fine e non come il mezzo attraverso il quale si raggiunge l’obiettivo di una coesione europea che rafforzi l’idea costituente dell’Unione. La coesione (di cui i fondi strutturali sono infatti solo strumenti di attuazione) è la principale politica dell’Unione Europea. Una politica complessa ed articolata, ma straordinariamente importante soprattutto per superare la crisi e i suoi effetti asimmetrici persistenti fra i Nord e i Sud dell’Europa.
Il dibattito comune ignora, invece, alcune grandi questioni di fondo: l’argomento “fondi strutturali” viene usato faziosamente per rafforzare quella corrente di pensiero che ritiene che tutti gli interventi di politica economica in favore del Mezzogiorno siano destinati a fallire, anche e soprattutto per una immutabile diversità antropologico-culturale dei suoi cittadini e delle sue classi dirigenti.
La circostanza che emergano così tante criticità e malcostumi non dipende – come vorrebbe il dibattito poco tecnico alimentato dalle vetrine mediatiche – solo dall’inadeguatezza della politica o dalle attitudini clientelari, ma da profonde debolezze dell’intero Paese, certamente più accentuate nel Mezzogiorno. Si dovrebbe sospendere il cicaleccio fazioso sulla spesa certificata (senza alcuna attenzione se sia stata spesa utile, cioè che ha prodotto qualcosa che effettivamente incide sulla qualità di vita della comunità o sulla competitività del sistema imprenditoriale) e iniziare a confrontarsi sui programmi e sui risultati. Ci si accontenta invece spesso di una discussione sciatta, approssimativa, ricca di luoghi comuni, che davvero non porta lontano. E fa solo disamorare del progetto Europa.
Una grande politica di sviluppo strutturale (e non occasionale o “tampone”) scade così a elemento di polemica settaria. Senza soffermarsi invece sulla portata innovatrice che sta caratterizzando questo ciclo di programmazione.
Il tema è assai complesso e il dibattito andrebbe attrezzato di maggiori conoscenze tecniche. Si declina infatti di regole e tecnicismi che – proprio mirando alla crescita e con il focus sui risultati e quindi sulla qualità e coerenza della programmazione – creano un distacco temporale inevitabile tra il 2014 e l’anno in cui sono effettivamente state messe a bando le risorse del 14/20, ovvero il 2017. Dietro al quale stanno le parole negoziato, programmazione, approvazione leggi di settore, piani di settore, meccanismi di controllo, verifica di conformità ai regolamenti comunitari, valutazione ex ante, etc. Ma che per i cittadini e le imprese si traducono in “tre anni di attesa” dall’ultimo bando.
Come ogni politica complessa, bisogna lavorare moltissimo sulla costruzione di una nuova cultura. Lavorare sulla comunicazione e sulla massima condivisione di dati ed informazioni (coerentemente all’indirizzo di open-democracy che è appunto uno dei principi innovatori portanti della nuova politica europea), per contrastare i giudizi sommari e l’insofferenza verso processi articolati e che si realizzano nel tempo. E puntare il bersaglio dell’attenzione e della critica costruttiva su quali sono le misure e gli strumenti effettivamente utili per realizzare sviluppo. E realizzarli, magari anche senza passare dai “bandi”. A questo dovrebbe servire l’Europa e le programmazioni di settore, a selezionare e realizzare solo gli interventi che diventano veri e propri punti di svolta per le economie dei territori.