Matteo Renzi è in evidente difficoltà, ieri in televisione da Floris aveva la lucidità di un pugile suonato.
Ne ha ben donde, d’altro canto: ha perso malamente le elezioni in Sicilia, è accerchiato dai suoi nemici Bersanian-Dalemiani a sinistra, e da Franceschini ed Orlando all’interno del partito, Mattarella lo guarda in cagnesco. Insomma è stretto all’angolo del ring.
Come intende uscire Matteo dall’assedio? Stando ai resoconti di Repubblica, Renzi starebbe pensando di stravolgere il Pd, di sparigliare abbandonando le mediazioni politiche, insomma, fare il Macron all’italiana. Ma è troppo tardi: l’appeal politico di Renzi è al minimo storico, la sua immagine di “rottamatore” non è più credibile.
Avrebbe dovuto pensarci nel 2014, all’apice della sua popolarità. Ma allora, anziché farsi un partito tutto suo come l’“En Marche” transalpino, liberandosi dalle zavorre ideologiche degli ex comunisti e dalle incrostazioni correntizie, ha preferito scalare il Pd per utilizzarlo come strumento per arrivare al vertice del potere. E piuttosto che trasformarlo, facendo leve sulle migliori energie ed aprendolo ad iscritti e simpatizzanti, ha scelto di allearsi con i cacicchi locali ed i signori delle tessere e di circondarsi di “yes-men”, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Adesso è bene che Renzi, invece, faccia un passo indietro, la priorità non può essere sempre il suo destino politico personale. Le elezioni politiche sono dietro l’angolo e non è impossibile che la sinistra si possa alleare col Pd, anche alla luce del pessimo risultato elettorale di Fava in Sicilia, che ridimensiona le aspirazioni degli scissionisti.
E se Renzi è l’ostacolo, non è certo un dramma se sta fermo un giro, perché è assolutamente necessario, nell’interesse generale del Paese, che si ripristini la fisiologica dialettica elettorale tra centrodestra e centrosinistra, propria di ogni sistema politico maturo, che marginalizzi il movimento Cinquestelle.