“Noi abbiamo disonorato la divisa? Noi? Ma se anche ci fosse stato, il depistaggio, lo avrebbero lasciato fare a noi, a due pesci piccoli?”. Così Fabrizio Mattei, 64 anni, e Michele Ribaudo, di 66, due dei tre poliziotti oggi in pensione (il terzo è il funzionario Mario Bò) assolti martedì scorso dall’accusa di calunnia aggravata nel processo sul depistaggio delle indagini relativo all’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino che si è svolto davanti al tribunale di Caltanissetta.
Per Bò e Mattei, caduta l’aggravante di avere favorito la mafia, è scattata la prescrizione; Ribaudo è stato invece assolto nel merito. In un’intervista al Giornale di Sicilia, rilasciata alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio, i due imputati si difendono dall’accusa di avere ‘pilotato’ il falso pentito Vincenzo Scarantino, che – secondo la Procura – sarebbe stato forzato, istruito, orientato dal gruppo di poliziotti guidato dal questore Arnaldo La Barbera, poi deceduto. Ma nello stesso tempo sottolineano di avere “il massimo rispetto” per il dolore dei familiari delle vittime.
“I figli del dottor Borsellino – dice Mattei – hanno ragione. Però noi non abbiamo depistato niente“. Ribaudo, che è stato pienamente scagionato, spiega: “Secondo i giudici per me il fatto non costituisce reato. Io ero terminalista, facevo ricerche al computer ma, come il collega, andai là, da Scarantino, nella residenza di San Bartolomeo a Mare. Abbiamo fatto le stesse cose”.
Mattei, per il quale è scattata la prescrizione, osserva: “So bene che mi lascia una macchia, finché non ci sarà l’assoluzione piena. Ma io non ho depistato proprio niente”.
Resta il fatto che quello che è stato definito dai giudici “il più colossale depistaggio nella storia della Repubblica”, è ancora senza responsabili. “Nelle inchieste – conclude Mattei – si cerca sempre il colpevole, non uno a caso. Io condivido le tesi dei pm del processo Borsellino quater. E cioè che in quegli anni dopo le stragi c’era un clima di piombo, con la pressione mediatica e dell’opinione pubblica che era quella che era. Le valutazioni potrebbero essere state forzate, ma in tutti gli ambiti: comprese la magistratura requirente e giudicante. Fino alla Cassazione”.