Dall’istante in cui Giorgia Meloni è diventata Presidente del Consiglio stiamo assistendo, sui social, nei talk show e non solo, ad un dibattito surreale.
I temi forti della campagna elettorale sono stati dimenticati, insieme alla paura del ritorno del fascismo, per lasciare posto ad un scontro “lessical-grammaticale” nel quale più che Marx conta l’Accademia della Crusca.
All’inizio c’è stata una reazione di sorpresa: “incredibile, un governo di centrodestra che fa cose di centrodestra”, quasi che dalla coalizione ci si aspettassero posizioni di sinistra, il raddoppio del reddito di cittadinanza e la patrimoniale. Lo stupore è pure comprensibile, perché in Italia siamo abituati che a prescindere dal vincente alle urne poi nei governi ci si arrangia, con le mille sfumature di ammucchiata.
Non a caso siamo passati dal 2018 al 2022 dal governo gialloverde al giallorosso fino al tecnico-colorato senza che nessuno battesse ciglio.
Ma il dibattito di questi giorni si sta facendo con il vocabolario in mano, il gesso e la lavagna. Tre sono i punti che stanno vedendo accapigliarsi fior fiori di commentatori, dal più fine intellettuale fino all’ultimo dei commentatori facebook.
Provo a sintetizzarli schematicamente.
1)Giorgia Meloni è la prima donna a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio dopo 67 uomini. Ma poiché è di destra il suo non è un traguardo per tutte le donne ma una svista della storia, un impazzimento dell’elettorato che l’ha votata.
2) I nuovi nomi dei ministeri hanno scatenato il panico come quando all’arrivo del covid la gente ha preso d’assalto i supermercati per comprare farina e penne rigate, quando in realtà sarebbe bastato leggere wikipedia per rasserenarsi (o parlare con il fruttivendolo sotto casa).
3)Il più surreale di tutti. Giorgia Meloni vuol farsi chiamare “Il Presidente” e non “la Presidente”. E qui è ufficialmente nata l’opposizione lessico-grammaticale in base alla quale se preferisci l’articolo determinativo maschile singolare sei chiaramente ed indiscutibilmente ed irreversibilmente nemica delle donne.
Il tempo in cui l’unico timore erano i congiuntivi pentastellati sono alle spalle ed in causa, con tanto d’interviste è stata chiamata direttamente l’Accademia della Crusca.
Altro che guerra, crisi energetica, bollette della luce, riforme: il (lo,la,i, gli, le) presidente Meloni sarà giudicata sugli articoli determinativi, perché si sa, si comincia con “il” e chissà come si finisce….
Iniziamo dal punto 1. Giorgia Meloni, dopo 67 premier uomini, è la prima donna. Se fosse stata un’esponente del Pd staremmo qui a glorificarne le gesta, la biografia ed a proporre di intitolarle, con lei ancora in vita, piazze, teatri e palasport. Invece di chiedersi perché mai tutto ciò non sia accaduto nel centro sinistra scoppia la polemica su chi può essere contento del traguardo e chi no. Soprattutto se questo sia un traguardo e non piuttosto un tranello del solito centrodestra patriarcale. A mio giudizio è’ un traguardo ed è un traguardo che riguarda tutte le donne, di destra di sinistra di lato di sotto di sopra di centro. Ed è ovvio che Meloni non rappresenta tutte le donne, ma è un traguardo anche per chi non si sente rappresentata da lei. Del resto quando il presidente è stato Draghi piuttosto che Letta o Renzi o Berlusconi nessuno ha chiesto a tutti gli uomini se si sentivano o meno rappresentati da loro. La domanda “ti senti rappresentata dalla prima donna che guida il governo” viene posta adesso e se per caso tu, che non sei di destra e non hai neanche votato la coalizione ti azzardi a dire “sì” sei spacciata. Passi dall’altro lato della barricata, quella degli sporchi, brutti e cattivi. Sì, mi sento rappresentata da una donna che si è costruita da sola in una coalizione dominata per 30 anni da un “patriarca” come Berlusconi (la cui opinione sulle donne è nota) e con un altro leader Salvini, che non scherza su questo punto. Non condivido le sue idee ma ha raggiunto un traguardo per tutte noi, ha aperto una strada che potrà essere intrapresa da altre.
Invece il dibattito mette in luce l’assoluto provincialismo italiano perché non si discute sulla “conquista” in sé, ma sulla persona che l’ha ottenuta. Il vero traguardo sarà quando il genere del Presidente del Consiglio non sarà più oggetto di dibattito, quando neanche ci faremo più caso. In Inghilterra dalla Thachter in poi nessuno fa dibattiti sul sesso del premier. Men che mai in Germania.
Un Paese che si divide persino sul fatto se possiamo essere lieti di avere una donna a capo del governo o meno (perché la donna in questione è di destra) è profondamente immaturo.
Andiamo al punto 2. La sovranità alimentare e in misura minore il Made in Italy.
Le reazioni alla nuova indicazione del Ministero dell’agricoltura sono state le stesse di quelli che commentano gli articoli dopo aver letto solo il titolo. La parola sovranità ha fatto venire l’orticaria senza andare a leggere neanche cosa sia, magari cliccando su wikipedia. Terrorizzati dal non poter più mangiare all’All you can eat per 16 euro tutto il possibile non si sono presi la briga di andare a guardare cosa realmente sia la sovranità alimentare. Peraltro gli stessi intellettuali che si stracciano le vesti per il paventato ritorno all’autarchia nel 2022….. hanno dimenticato anni di battaglie per i d.o.c. e i d.o.p. o quanto fa “figo” parlare di slow food. Magari dieci minuti una chiacchierata con chi la terra la conosce, con i nostri produttori in ginocchio per politiche sbagliate, si potrebbe anche fare. Magari prima di urlare al “nessuno tocchi la mia papaia” potrebbero lasciare il discorso da salotto e andarsi a leggere le etichette al supermercato sotto casa (sì anche quelle dei limoni). E poi passare dal mercato, quello affollato da migliaia di italiani che non arrivano a fine mese e conoscono i prezzi del pane, del latte, delle arance, dei pomodori. E il sushi non se lo possono permettere e non perché sono fascisti e fautori dell’autarchia ma perché sono poveri.
Ma il più surreale di tutti è il punto 3, per il quale è stata interpellata l’Accademia della Crusca e l’Usigrai (sindacato dei giornalisti Rai) ha diramato un comunicato di protesta.
Giorgia Meloni ha chiesto di essere definita anche negli articoli “il presidente” e non la presidente. Sollevazione popolare della Rai (quella lottizzata sin nel Dna e sin dalla nascita). Solo una sindacalista ha votato contro il comunicato. Posto che quella di Giorgia Meloni è una richiesta e non un obbligo e ognuno è libero di essere chiamato come vuole, perché mai la sua LIBERA scelta deve essere vista come un passo indietro sui diritti o un arretramento linguistico oltre il quale rischiamo un giorno di esprimerci a grugniti e a gesti?
Sono stata direttore di una testata giornalistica on line e per anni mi hanno chiesto come preferissi essere chiamata. Ho sempre risposto: sono il direttore. E mi sono sempre battuta per la dignità delle donne, per i nostri diritti. Conosco bene le differenze tra uomo e donna nel fare carriera, gli ostacoli, le diffidenze. Trovo anche questo dibattito allucinante e tipico dell’ipocrisia del politicamente corretto. Se si fa chiamare il presidente vuol dire che costringerà le donne a tornare tra i fornelli? E’ un attacco ai nostri diritti? Ma veramente il ritorno del centrodestra al governo avrà un’opposizione di tipo grammaticale? Dobbiamo aspettarci l’analisi della sintassi nel giorno del voto di fiducia?
Mentre social e talk show si stanno appassionando agli articoli determinativi qualcuno dovrà pur uscire per strada, magari tra esponenti del centro sinistra, e incontrare la gente, quella vera, quella che ha i veri problemi, come le bollette, il pane che aumenta, la benzina alle stelle, gli stipendi fermi, le saracinesche da chiudere per sempre, gli operai da licenziare.
E ditelo a loro che il problema del Paese oggi è un articolo determinativo, che per voi questo è il segno dell’arretramento sui diritti. E poi chiedetevi perché ha vinto le elezioni.