Già nell’ultimo anno i passi indietro registrati nell’impiego del lavoro agile erano evidenti. Dal primo aprile si sono concretizzati in pieno. Il 31 marzo sono infatti scadute le deroghe previste durante il Covid, che facilitavano lo smart working. La parentesi del periodo pandemico è stata totalmente spazzata via, dimenticata e cancellata come se non fosse mai esistita, riavvolgendo il nastro e tornando alla gestione ordinaria. Gli amanti del lavoro da casa, accovacciati sul divano o che avevano riorganizzato i propri spazi per ricreare un mini-ufficio su misura, adesso vedranno restringere le vie di applicazione.
Fare di tutta un’erba un fascio sarebbe però sbagliato. Le divergenze in materia tra privato e pubblico sono evidenti, non solo nella regolamentazione. Il gap, infatti, deriva anche da una visione e da un approccio differente, tra chi guarda al futuro e alle nuove esigenze del mondo del lavoro e chi, ancorato al passato, fatica a ingranare la marcia verso l’innovazione.
Nel settore privato la disciplina lo smart working viene demandata ad accordi collettivi aziendali, che definiscono i giorni in cui i dipendenti lavorano in presenza e quelli in cui lavorano da remoto. Poco o nulla potrebbe cambiare per questo campo, soprattutto per quando riguarda le grandi e media imprese, capaci di cavalcare l’onda, traendo alcuni punti a proprio favore, come l’abbassamento notevoli dei costi per il mantenimento di strutture e uffici. Da considerare è anche il grande appeal attrattivo. Soprattutto tra i giovani, il lavoro agile, è considerato un’ottima opzione per conciliare al meglio sfera professionale e personale, a cui difficilmente rinuncerebbero (CLICCA QUI).
Nella pubblica amministrazione si è assistito a un graduale abbandono: dall’iniziale coinvolgimento di tutta la platea di lavoratori, al restringimento della cerchia, includendo soltanto lavoratori fragili, genitori di under 14, assistenti e accompagnatori, fino a oggi con il ritorno degli accordi individuali con il dirigente per tutelare i fragili.
Insomma, il pubblico arranca e anche in Sicilia non va certamente meglio. In Regione la pratica dello smart working è praticamente scomparsa, ma si studia su un altro fronte, quello del telelavoro.
Ma qual è la differenza? Il telelavoro si svolge per forza a casa e i lavoratori sono vincolati dalle stesse regole e orari dell’ufficio. Cambia solo il luogo insomma, non le forme. Lo smart working può essere svolto ovunque e consente di lavorare entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, dunque le ore non devono coincidere per forza con quelli dell’ufficio.
“Non siamo riusciti a normare lo smart working. E’ stato raggiunto solo un accordo sul telelavoro, attualmente in via sperimentale e al quale può accedere solo il 10% della platea dei dipendenti. Principalmente sono soggetti fragili, persone che hanno familiari con la legge 104 art.3 comma 3, con problemi personali o minori“. E’ questo il quadro dipinto da Giuseppe Badagliacca del Csa-Cisal che ha sottolineato l’esistente di un altro grave problema. “La Regione – aggiunge – è a corto di personale. Negli ultimi vent’anni ci sono stati più pensionamenti che assunzioni. Chi può accedere al telelavoro sono le funzioni alte, come istruttori e funzionari. Le categorie A e B, come portieri, uscieri o autisti, non possono farlo. Quest’ultime sono il 50% dell’attuale dotazione organica, su circa 4.900 dipendenti“.
Resta comunque l’amarezza. La Sicilia ha perso l’ennesimo treno in corsa. “Da questo punto di vista – prosegue Badagliacca – la pubblica amministrazione non è riuscita a evolversi. L’impatto con il Covid ci ha costretti ad attuare lo smart working e pensavamo che la procedura rimanesse nel tempo. Ovviamente normandolo, perché in quei tempi, con caratteri di straordinarietà e urgenza, ci siamo ritrovati immediatamente a correre ai ripari per continuare a portare avanti le attività“. In realtà, però, telelavoro e lavoro agile “sono sempre stati previsti nei contratti nazionali dello Stato, ma dovrebbe essere poi l’amministrazione a trovare l’accordo e regolamentarlo. Nel caso dei Comuni, per esempio, la norma c’è. Ogni singolo Comune, poi, dovrebbe regolamentarlo ma vi è un’evidente incapacità nell’autoregolamentazione“.
A questo punto non resta altro che testare (almeno in piccole dosi) gli effetti del telelavoro. “Anche il telelavoro – dichiara – si potrebbe estendere. Intanto abbiamo approvato la soglia del 10% in via sperimentale e vedremo come andrà l’esperimento“. In dirittura d’arrivo dovrebbe essere anche “il nuovo contratto dei regionali che stiamo sottoscrivendo. Siamo un triennio indietro – conclude Badagliacca – ma a parer mio con la nuova norma riusciremo a sviluppare qualcosa, sempre tenendo conto dello scarno personale e che quelli che possono aderire, di fatto, sono pochi perché le funzioni alte le puoi regolamentare ma per quelle basse è più difficile“.