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La recensione

Il viaggio ‘imperfetto’ di Queer, il regista palermitano Guadagnino torna al cinema con il suo film più personale

giovedì 17 Aprile 2025

Luca Guadagnino, al suo nono lungometraggio, sbarca al cinema con “Queer”, tratto dall’omonimo romanzo di William Burroughs, facendoci perdere dentro un turbinio di alcol, droga, sudore e passione. Dopo lo straordinario successo del suo ultimo film Challengers (CLICCA QUI), uscito in sala nell’aprile scorso, il nostro film-maker torna dietro la macchina da presa con la sua opera più personale.

La trama

Il film è ambientato a Città del Messico negli anni ’40, dove Lee (interpretato da Daniel Craig), un americano che ha lasciato New Orleans per sfuggire a un mandato d’arresto per possesso di droga, si rifugia in un mondo di esuli e emarginati. In questa città calda e caotica, Lee frequenta bar affollati da studenti universitari americani, ex soldati e altri reietti della società e qui sviluppa una passione per Allerton (interpretato da Drew Starkey), un militare della Marina americana in congedo che inizialmente respinge le sue avances. Tuttavia, alla fine, cede in parte, creando una dinamica di desiderio non corrisposto che diventa una vera ossessione. Insieme, intraprendono un viaggio verso il Sud America, alla ricerca di una droga misteriosa, “Yage“, che Lee crede possa conferire straordinari poteri sensoriali. La relazione tra i due diventa sempre più intensa e complessa, segnando un percorso di autodistruzione e confronti dolorosi con i propri demoni interiori.

La recensione

Ci vuole un gran coraggio per scegliere di rappresentare al cinema i deliri di uno scrittore così complesso e affascinante come William Burroughs, ma a detta di Guadagnino questo è il film che ha sempre voluto fare e di gran lunga il suo più intimo e personale. Nel 1991 ci provò il regista David Cronenberg donandoci uno dei più importanti film fanta/horror della storia del cinema, decidendo di adattare “Il pasto nudo” sullo schermo. Differentemente dal regista canadese, molto più secco e brutale nello stile, Guadagnino da sempre dotato di una profonda sensibilità, inonda il film di un calore tristemente romantico che svuota sia lo spettatore che il meraviglioso protagonista interpretato dall’ormai ex 007 al cinema. Non è un caso che nel James Bond dell’attore britannico ci sia stata la rappresentazione più fallibile ed intima tra tutti gli agenti della celeberrima serie tratta dai romanzi di Ian Flaming. Probabilmente è anche qui che il nostro Guadagnino ha saputo vedere quel tipo di disillusione e fragilità che gli servivano per la sua ultima pellicola. Nella stanchezza e nel sudore perenne di Craig ci siamo noi, con le nostre imperfezioni, i nostri fallimenti, le nostre gaffe e il nostro disperato bisogno di attenzione quando cerchiamo goffamente di farci notare dal nostro oggetto del desiderio. Sì perché il Lee di Daniel Craig è uno splendido disastro. Un uomo distrutto dall’alcol e dalla droga che cerca vanamente di avvicinarsi e di instaurare un contatto profondo con un giovane “perfetto” che diventa vera e propria ossessione capace di distruggerlo e distruggerci. Nella relazione caratterizzata da un continuo alternarsi di concessioni e rifiuti tra Lee e Allerton, il primo finisce lentamente per consumarsi ancora di più e sprofondare dentro sé stesso.

Guadagnino è da sempre un costruttore di ambienti, e disegna una Città del Messico quasi artefatta e irrealistica, specchio dei deliri allucinogeni del suo protagonista. Con pochi eguali nel panorama cinematografico mondiale ci restituisce, anche questa volta, la capacità di vivere e sentire gli ambienti circostanti. Noi insieme al protagonista ne sentiamo gli odori, il calore e il sudore che ci bagna la camicia sempre sporca e sudata che ci si appiccica addosso, anche quando ci spogliamo e ci uniamo carnalmente (qui sì, non dissimilmente da quanto fatto in precedenza da Cronenberg, in una svolta body horror sul finale), in una vera e propria danza che ci fonde con l’altro nella speranza di possederlo e anche se per poco sentirlo e capirlo veramente.

Il film terribilmente ‘imperfetto’ come il suo protagonista (la scelta di utilizzare una colonna sonora anacronistica, a volte fa un po’ storcere il naso), ci restituisce però una sempre chiara e personale visione di un regista che dimostra di saper ancora una volta rischiare e mettersi in gioco. Nel fallimento di Lee ci sono i nostri di fallimenti, quelli del film, del suo regista e quelli con tutta probabilità di Burroughs che da sempre ha dovuto convivere con il rimorso di aver perso, per mano sua, la compagna. Ecco che quel finale a tratti così enigmatico, assume tutto un altro significato anche meta testuale e meta narrativo, forse anche qui, colpevolmente da parte del regista, non così chiaro per chi non conosce le vicende dello scrittore statunitense. Un film che meriterà certamente di essere visto e rivisto, e in fondo amato per quelle sue splendide imperfezioni che lo rendono così unico.

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