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Lo scroll infinito

L’iperconnessione trasformata in compulsione: “Bulimia social” nell’era dell’immateriale, quando la vita si consuma online

domenica 21 Settembre 2025

Viviamo in un tempo in cui la connessione non è più solo uno strumento, ma un habitat. L’iperconnessione ha dato vita a quella che alcuni studiosi definiscono “bulimia social”: la compulsione a stare sempre online, a inseguire notifiche e like, a temere il vuoto dell’assenza digitale. Una dinamica che produce ansia, isolamento, perdita di attenzione.

Ma questo malessere non può essere letto soltanto come una patologia individuale: è il riflesso dell’“era dell’immateriale”, un’epoca in cui il confine tra reale e virtuale si dissolve, trasformando lavoro, relazioni e identità.

 

Un mondo senza radici stabili, dove la bulimia social diventa il sintomo più diffuso. Il tema dell’iperconnessione è così dibattuto nella società che finì per essere una traccia dell’esame di maturità nel 2022 (la più scelta tra gli studenti) alla prima prova scritta dell’Esame di Stato. È stata infatti svolta dal 21,2% dei maturandi.

“Vivere in un mondo iperconnesso comporta che ogni persona abbia, di fatto, una specie di identità aumentata occorre imparare a gestirsi non solo nella vita reale ma anche in quella virtuale senza soluzione di continuità…”. Ai maturandi venne proposto uno stralcio del saggio “Tienilo acceso” di Vera Ghena e Bruno Mastroianni in cui gli autori discutono dei rischi della rete, soprattutto in materia di web reputation.
Agli studenti è stato chiesto se nel proprio percorso di studi hanno avuto modo di affrontare queste tematiche e di riflettere sulle potenzialità e sui rischi del mondo iperconnesso. Anche di argomentare il proprio punto di vista in riferimento alla cittadinanza digitale, sulla base delle proprie esperienze, delle proprie abitudini e della propria sensibilità.
Oggi la bulimia social e l’era dell’immateriale non sono due temi distinti ma due facce dello stesso specchio. Raccontare insieme questi due aspetti significa indagare non solo la malattia, ma anche l’ambiente che la genera, aprendo la domanda: come trovare equilibrio in un universo digitale che ci avvolge senza tregua?

 

Lo scroll infinito: “Sempre connessi, mai presenti”

 

Lo smartphone vibra ancora, sul comodino. È la sesta volta in meno di tre minuti. Una notifica di WhatsApp, due messaggi su Instagram, una mail di lavoro, una notizia di cronaca appena arrivata e un allert da pubblicare su Telegram. Non c’è niente di urgente, eppure la mano corre istintiva verso lo schermo, come se rifiutare quel richiamo fosse un atto di rinuncia. Lo “scroll” parte da solo: foto, video, storie. Passano i minuti, passa un’ora. Alla fine resta solo un senso di stanchezza, di saturazione. E, paradossalmente, di vuoto.

Lo vivo anche io, ogni giorno, nel mio lavoro di giornalista. La connessione continua non è solo una possibilità: è un obbligo tacito. Devo monitorare le notizie, rispondere ai colleghi, intercettare le fonti, seguire il flusso ininterrotto di dichiarazioni e aggiornamenti. Se stacco per qualche ora, rischio di perdermi un passaggio, di rimanere indietro rispetto alla cronaca. Così finisco per consumare notizie come altri consumano stories: in modo compulsivo, più per necessità che per reale scelta.

È in questa dinamica che si annida quella che alcuni studiosi definiscono “bulimia social”: l’iperconnessione trasformata in compulsione, la necessità di nutrirsi continuamente di contenuti digitali, senza mai sentirsi davvero sazi.

Una condizione che non riguarda più solo i giovani, ma attraversa generazioni e professioni, e nel giornalismo si amplifica fino a diventare parte integrante del mestiere. Il risultato è una fragilità diffusa: ansia, insonnia, perdita di concentrazione, un malessere che somiglia più a una fame insaziabile che a un bisogno reale di comunicare.

Eppure la bulimia social non è un fenomeno isolato. È il sintomo più evidente di un passaggio epocale: l’ingresso nell’era dell’immateriale. Un’epoca in cui i confini tra reale e virtuale si dissolvono, in cui il lavoro avviene in smart working, le relazioni si coltivano in chat, l’identità si riflette nei profili digitali più che nello sguardo diretto. La vita sembra spostarsi sempre più nei territori smaterializzati del web, dove ciò che conta non è più la presenza fisica, ma la visibilità.

In questo spazio sospeso, il tempo si dilata, i luoghi perdono consistenza, i corpi diventano avatar. È un mondo che offre possibilità immense — di comunicare, di creare, di abbattere distanze — ma che porta con sé anche una nuova forma di precarietà: quella dell’essere continuamente connessi e mai davvero presenti. Lo sperimento ogni volta che, nel tentativo di seguire tutto, scopro di non aver vissuto davvero nulla.

Raccontare questo intreccio significa osservare il digitale non soltanto come tecnologia, ma come condizione esistenziale. La bulimia social e l’era dell’immateriale non sono due temi distinti. Da una parte il sintomo individuale, dall’altra la cornice culturale che lo produce e lo alimenta.

Un doppio movimento che ci costringe a chiederci: siamo ancora noi a usare i social, o sono i social a usare noi?

 

Il lato patologico: la bulimia social

 

La bulimia social non è semplicemente il bisogno di scrollare o di aggiornarsi. È una forma di dipendenza comportamentale che nasce dall’interazione tra stimoli digitali continui e meccanismi psicologici profondi. Il termine richiama la bulimia alimentare non a caso: come chi soffre di binge eating, chi sviluppa bulimia social prova un desiderio incontrollabile, compulsivo, di “consumare” contenuti digitali, spesso fino al punto di provare disagio, colpa o ansia.

Uno studio italiano condotto nel 2024 dall’Università di Milano-Bicocca ha esaminato il rischio di sviluppare disturbi alimentari tra gli studenti delle scuole superiori, evidenziando che un uso intensivo dei social è correlato a segnali precoci di disordini alimentari. Lo stesso anno, un articolo pubblicato dall’Istituto Superiore di Sanità ha messo in luce il legame tra disturbi alimentari e ritiro sociale, suggerendo che l’isolamento, accentuato dall’iperconnessione digitale, può intensificare la gravità dei sintomi.

A livello internazionale, una revisione sistematica del 2023 pubblicata sul “Journal of Eating Disorders” (coinvolgendo 50 studi in 17 paesi) ha mostrato come l’uso compulsivo dei social media sia associato a preoccupazioni sull’immagine corporea, auto-oggettivazione e cattiva salute mentale.

Ma per comprendere la portata del fenomeno, basta guardare a casi di vita comune. Giovanna, 18 anni, racconta di passare notti intere su TikTok, seguendo influencer che parlano di diete estreme e workout impossibili. “Se non mi collego mi sento tagliata fuori, ma più sto online più mi sento sbagliata”, confessa. La mattina si sveglia stanca, evita la colazione, e davanti allo specchio vede solo difetti. È un ciclo che consuma energie e identità.

Un esempio diverso è quello di Mirko, 23 anni, studente universitario. Le sue giornate sono scandite dallo scroll infinito: Instagram, Twitter, YouTube, senza soluzione di continuità. “Lo faccio anche mentre mangio, senza rendermene conto”, spiega. Alla fine resta con un senso di colpa per aver perso ore preziose di studio, ma l’impulso si ripete. È la stessa dinamica della bulimia: consumo compulsivo, insoddisfazione, ritorno al consumo.

Questi vissuti, lontani dall’essere casi isolati, mostrano come la bulimia social non sia confinata a una dimensione clinica, ma sia diventata un’esperienza diffusa, intrecciata alla quotidianità. Nei casi più gravi, la bulimia social può interferire con la vita lavorativa e personale, creando una vera e propria saturazione cognitiva.

L’aspetto più interessante è che questo fenomeno non riguarda solo chi trascorre ore sui social per svago. Professionisti e lavoratori, ad esempio, si trovano immersi in un flusso ininterrotto di aggiornamenti, notifiche e messaggi. La necessità di restare connessi diventa parte integrante del lavoro, creando una dipendenza indotta dal contesto, che si intreccia con la routine professionale e con la pressione sociale.

La bulimia social si manifesta anche attraverso comportamenti sottili: controllare lo smartphone mentre si parla con qualcuno, sentirsi ansiosi senza notifiche, confrontarsi costantemente con il successo altrui online. Questi sintomi rivelano un disagio che è al tempo stesso individuale e sociale, in quanto riflettono l’interazione tra soggetto e ambiente digitale.

 

 Il contesto locale e globale: l’era dell’immateriale

 

L’era dell’immateriale non è solo una definizione tecnologica: è un concetto culturale. Viviamo in un mondo in cui l’informazione, le relazioni e persino le identità si spostano in uno spazio smaterializzato, dove i confini tra offline e online sono sempre più labili.

Il lavoro, sempre più digitalizzato, non conosce più barriere fisiche: smart working, piattaforme collaborative, chat continue. Le relazioni personali spesso si sostengono sui social, riducendo il contatto fisico a momenti marginali. Perfino l’identità, soprattutto per le giovani generazioni, si esprime attraverso avatar, profili e feed, diventando in parte performativa e visibile, più che reale.

Un report della Commissione Europea del 2023 sulla trasformazione digitale ha sottolineato l’urgenza di accelerare gli investimenti in competenze e infrastrutture, evidenziando come la digitalizzazione sia ormai un asse strategico per società ed economie. In Italia, il Piano Nazionale di Digitalizzazione del Patrimonio Culturale, aggiornato dal Ministero della Cultura nel 2023, ha mostrato come persino la memoria collettiva e i beni culturali vengano traslati in archivi digitali, accessibili ovunque ma slegati dal contesto fisico originario.

Ma cosa significa tutto questo nella vita di tutti i giorni?

Serena, 40 anni, impiegata in un’azienda di consulenza, lavora da casa tre giorni su cinque. Le sue giornate sono un susseguirsi di call su Teams, chat aziendali, file condivisi. “Mi accorgo che a volte passo un’intera settimana senza incontrare davvero nessuno, se non attraverso lo schermo”, racconta. Nel tempo libero guarda serie in streaming e ordina cibo con un’app. “La mia vita si consuma davanti a un monitor. È comodo, ma a volte mi chiedo se esisto davvero fuori da qui”.

Un altro caso è quello di Anna, 77 anni, pensionata. Dopo la pandemia, molti servizi pubblici sono stati trasferiti online: prenotazioni mediche, pratiche amministrative, persino il ritiro delle ricette. Rosa, che non ha dimestichezza con lo smartphone, si ritrova esclusa. “Perdo ore al telefono per parlare con un operatore, e spesso non risponde nessuno”, spiega. In questo mondo smaterializzato, l’assenza di competenze digitali diventa una barriera che isola gli anziani e li priva di diritti concreti.

In questo contesto, la bulimia social non è un’anomalia, ma un sintomo naturale del sistema: il bisogno di connessione costante nasce dal fatto che la realtà stessa è diventata fluida, evanescente, immateriale. La tecnologia amplifica queste dinamiche, accelerando ritmi e sovraccaricando la percezione di chiunque tenti di navigarle.

 

Il punto d’incrocio tra sintomo e contesto, cosa fare?

 

L’incontro tra bulimia social e immateriale è evidente: la compulsione individuale è figlia di un’epoca collettiva. In un mondo dove il confine tra vita reale e virtuale è indistinto, l’ansia di non essere presenti online diventa comprensibile, quasi inevitabile.

Detox Digitale

La bulimia social diventa così il “termometro” di una società che si sta trasformando, in cui la digitalizzazione non riguarda più solo strumenti, ma identità, relazioni e tempo. Ogni notifica, ogni aggiornamento, è un richiamo a partecipare a un flusso continuo, un flusso che non lascia spazio al vuoto, ma che crea ansia se il soggetto prova a staccare.

Chiariamo, non si tratta di demonizzare la tecnologia. Il digitale offre opportunità straordinarie: comunicare con chiunque, accedere a informazioni globali, lavorare da qualsiasi luogo. Il punto è trovare equilibrio.

Le “Device Free Zone”

Esperienze di detox digitale (periodo di disconnessione volontaria dai dispositivi elettronici e da internet), le “Device Free Zone”, gestione consapevole delle notifiche, mindfulness e limiti temporali al consumo di social diventano strumenti concreti per contrastare la bulimia social.

Anche nella professione giornalistica come in ogni altro lavoro, ad esempio è possibile riuscire a creare microspazi di disconnessione senza compromettere la qualità del lavoro. Sono pratiche e indicazioni che stanno crescendo a livello individuale e collettivo nel mondo proprio per contrastare lo stress, migliorare la salute mentale e fisica e ristabilire un equilibrio più sano tra la vita online e quella reale.

Dedicate a ridurre la dipendenza dalla tecnologia e a riprendere contatto con se stessi e con il mondo esterno, favorendo la concentrazione, la produttività e le relazioni interpersonali. 

Ritornando alla scena iniziale provate a immaginarla così adesso: lo smartphone vibra ancora, ma stavolta c’è un gesto diverso. È spento per qualche ora oppure lontano da noi per nostra scelta consapevole. Il vuoto non spaventa, anzi, diventa spazio per respirare, osservare, vivere.

La bulimia sociale e l’era dell’immateriale sono quindi due facce della stessa medaglia: la prima è la conseguenza psicologica, il secondo è l’ambiente che la rende possibile. L’iper-connessione ci fa sentire vicini a tutti, ma può al tempo stesso renderci più distanti da noi stessi e dagli altri, intrappolandoci in un loop di stimoli superficiali e distrazioni.

E anche la domanda finale ritorna a proporsi nei nostri pensieri. Chiara e complessa allo stesso tempo: siamo ancora noi a usare i social, o sono i social a usare noi?

Riconoscere questo meccanismo non significa negativizzare l’innovazione e le reti sociali nel suo complesso, ma imparare a usarla in modo consapevole. Il vero potere non sta nel rifiuto, ma nella capacità di scegliere: di mettere un limite, di staccare la spina e di riflettere su ciò che consumiamo. Solo così possiamo spezzare questo circolo vizioso e passare da una vita di consumo compulsivo a una vita di scelte consapevoli, riappropriandoci del nostro tempo e della nostra attenzione.

Forse la risposta sta nell’equilibrio, nella capacità di stabilire confini anche in un mondo che, per sua natura, tende a dissolverli.

 

 

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