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La resa dei conti

Palermo, anni di silenzio: la città che non si sente sicura

lunedì 13 Ottobre 2025

Dalla morte di Paolo Taormina all’eredità di vent’anni di scelte mancate: economia fragile, periferie dimenticate, giovani senza prospettiva. Palermo vive oggi la sua resa dei conti con la paura, ma anche con la coscienza di ciò che non ha mai voluto vedere.

Una sera qualunque di ottobre nel cuore di Palermo. Le voci della movida si mescolavano alle luci tremolanti dei locali tra via Isidoro La Lumia e la Champagneria, quando una rissa — una delle tante che nascono dal nulla e finiscono nel sangue — ha tolto la vita a Paolo Taormina, ventun anni appena. È morto mentre cercava di fermare la violenza, non di crearla. Un corpo a terra, poi il silenzio improvviso della paura e dello stupore che ritorna nuovamente tra le vie di Palermo.

Omicidio di Paolo Taormina

Nelle ore successive, la città si è svegliata attonita. Le prime parole dei testimoni, i video, le sirene. Poi, i messaggi sui social: “Non è possibile, non può succedere ancora”. Ma è successo. E non è solo un fatto di cronaca: è l’ennesima ferita di un capoluogo di regione che da anni vive in bilico tra la sua rinascita culturale e il suo declino sociale, tra la vetrina turistica e la realtà quotidiana delle strade senza regole.

La morte di Paolo Taormina è diventata nuovamente simbolo. Non della movida, ma di qualcosa di più profondo: della stanchezza di un’intera comunità che non si sente più protetta. Una città che ha imparato a convivere con la paura, a contare i morti, a trovare rifugio solo nella memoria. Palermo oggi si guarda allo specchio, e non riconosce più il suo volto.

Fiaccolata per il giovane Paolo Taormina ucciso a Palermo, 12 ottobre 2025

Per capire come si sia arrivati fin qui, bisogna tornare indietro ai primi anni Duemila, quando Palermo cercava di lasciarsi alle spalle gli anni delle stragi e di reinventarsi come capitale del Mediterraneo.

Diego Cammarata

Diego Cammarata, sindaco dal 2001 al 2012, ereditò una città fragile, ma ancora viva. I progetti di riqualificazione promettevano un futuro di modernità: la metropolitana leggera, il porto turistico, i fondi europei. Ma le promesse restarono sulla carta.

Le periferie — Zen, Cep, Brancaccio, Sperone (ma non solo, oggi si dovrebbe ridisegnare e aggiornare l’elenco)— rimasero fuori da ogni disegno urbano. Le scuole cadenti, le strade al buio, i giovani senza lavoro: il degrado prese forma. Fu in quegli anni che nacque una nuova Palermo, fatta di sopravvivenza e abbandono.

La città imparò a cavarsela da sola, con l’orgoglio di chi non ha alternative. Le grandi opere incompiute divennero monumenti del disincanto.

L’emergenza rifiuti, la mancanza di servizi, la fuga dei giovani verso il Nord o l’estero furono il segno di una crisi che non era più temporanea, ma strutturale. Nel frattempo, la città cambiava pelle: le borgate storiche si svuotavano, i centri commerciali sostituivano le piazze, la politica si chiudeva nei palazzi. E in questa distanza crescente tra cittadini e istituzioni si piantavano i semi dell’insicurezza di oggi.

Leoluca Orlando
Leoluca Orlando

Dal 2012 al 2022 tornò Leoluca Orlando, il sindaco della “Primavera di Palermo”, il volto del riscatto civile dopo gli anni bui. Il suo ritorno fu accolto come un atto di fede (o di disperazione secondo alcuni). La città sembrò risvegliarsi: i teatri riaprirono, i festival tornarono, l’arte prese spazio nei vicoli. Palermo divenne Capitale Italiana della Cultura 2018, poi “Capitale dei diritti”. Tuttavia, dietro le luci del centro storico, le ombre restavano.

Le periferie non parteciparono al miracolo. I tassi di disoccupazione restarono tra i più alti d’Italia. La povertà educativa aumentava, e nei quartieri popolari si consolidava una generazione di ragazzi senza futuro, né fiducia.

Orlando portò visione e cultura, ma non riuscì a costruire una struttura amministrativa capace di tradurre quella visione in cambiamento quotidiano. Il decoro urbano collassava, i servizi pubblici si inceppavano, i bilanci comunali oscillavano tra debiti e commissariamenti.

Il contrasto tra immagine e realtà divenne la cifra della città: una Palermo che si raccontava europea, ma viveva ancora come un’isola dentro se stessa.

Il piano di riequilibrio del Comune, imposto dalla crisi debitoria generale, chiuse di fatto quell’esperienza di lungo corso di Orlando, costringendo la città a misure draconiane per far fronte ai conti e segnando la fine di una fase storica. Questo piano, necessario ma drammatico, ebbe ricadute su tutti i servizi urbani e sul tessuto sociale, creando un vuoto amministrativo che poi l’attuale amministrazione ha ereditato.

Roberto Lagalla

Nel 2022 arrivò Roberto Lagalla, ex rettore Unipa, con il sostegno dei partiti moderati e di parte del centrodestra. Il suo slogan era semplice: “Palermo torni normale”. Una promessa di ordine dopo anni di emergenze. Ma la normalità, in una città così, non è mai semplice.

Il sindaco si trovò di fronte a una macchina amministrativa in ginocchio, a una RAP (azienda rifiuti) in crisi, altre partecipate comunali in forte difficoltà, una polizia municipale sottorganico e a un tessuto urbano logorato. La città chiedeva sicurezza, pulizia, strade vivibili. Ma la risposta fu spesso episodica, frammentata, a volte emergenziale.

Negli ultimi due anni, l’amministrazione ha cercato di intervenire su più fronti: potenziamento della videosorveglianza, pattugliamenti straordinari in centro e nei quartieri più a rischio, investimenti sulla manutenzione urbana e piani di rigenerazione dei quartieri degradati. Tuttavia, questi interventi spesso si sono scontrati con vincoli burocratici, tempi lunghi di attuazione e risorse insufficienti, limitando l’impatto reale sulle condizioni quotidiane dei cittadini.

Le critiche principali riguardano la percezione di una città che continua a vivere senza guida chiara, con progetti che rimangono sulla carta e iniziative che non riescono a raggiungere tutte le periferie. Alcuni residenti denunciano una presenza della politica concentrata solo nelle zone centrali, mentre i quartieri popolari restano marginali, privi di servizi essenziali e infrastrutture adeguate.

La gestione Lagalla ha comunque aperto tavoli di dialogo con associazioni civiche e operatori sociali, provando a coinvolgere la cittadinanza nella costruzione di strategie locali. L’idea è di combinare sicurezza, educazione, cultura e partecipazione civica per produrre un effetto di lungo periodo, ma i risultati concreti tardano a vedersi e la frustrazione dei cittadini cresce giorno dopo giorno, alimentando un senso di precarietà che non si attenua con interventi sporadici.

 

La disoccupazione giovanile a Palermo: lo vogliamo capire che è un problema serio?

Sono i numeri che parlano chiaro: Nel 2024, secondo i dati ISTAT, la disoccupazione giovanile a Palermo ha superato il 38%, tra le più alte d’Europa. Il reddito medio pro capite è fermo a 17.000 euro annui, circa il 30% in meno della media nazionale. Ogni anno, circa 6.000 giovani lasciano la città per cercare lavoro altrove.

Le periferie restano il cuore dimenticato di tutto. Quartieri come Zen, Sperone, Cep, Bonagia o Brancaccio sono diventati sinonimi di marginalità, ma anche di resistenza culturale dal basso: tra scuole autogestite, centri sociali, parrocchie che suppliscono all’assenza dello Stato. Ci sono educatori che ogni giorno ricostruiscono ciò che la politica ha smesso di fare: tenere insieme una comunità.

MA NON BASTA, servono le istituzioni e i fondi.

 

Il turismo, che ha portato nuova linfa al centro storico, ha invece accentuato la polarizzazione economica: una città divisa tra chi serve e chi viene servito. Airbnb ha svuotato i quartieri antichi, mentre nelle borgate la vita resta ferma. I fondi del Pnrr promessi come occasione storica faticano a tradursi in cantieri reali. Palermo cresce in superficie, ma non in profondità.

Via Maqueda

Eppure, nelle periferie, nascono forme nuove di cittadinanza: laboratori, orti sociali, scuole di quartiere. Lì dove lo Stato è assente, la società civile continua a costruire il senso di appartenenza che altrove si è perso.

MA NON BASTA, alcuni quartieri sentono fortemente la perdita della coesione sociale e che sia vero o no che aumentano i reati violenti e delle risse in centro città negli ultimi due anni, ciò che cresce davvero è la percezione di insicurezza.

Basta parlare con i commercianti di via Roma o con i residenti della Kalsa: “La sera non si esce più tranquilli”.

La paura non nasce solo dai fatti di sangue, ma dalla sensazione crescente e tangibile che la città sia senza regole, senza controllo, senza guida. C’è chi chiede la militarizzazione del centro storico, chi invoca pattugliamenti fissi.

 

Ma la sicurezza non è solo una questione di pistole o uniformi. È soprattutto una questione di fiducia nelle istituzioni, di educazione civica, di cultura del rispetto.

Le fiaccolate per Paolo Taormina, come quelle per le vittime precedenti, raccontano una città che non si arrende del tutto. Una città che cerca ancora una voce comune, che prova a ricomporsi intorno al dolore. Ma il rischio è quello di abituarsi alla tragedia, di considerarla parte del paesaggio urbano. La militarizzazione darebbe un’illusione di ordine, ma non guarirebbe la malattia profonda: l’assenza di comunità. Palermo non ha bisogno di blindati, ha bisogno di presenza, educazione, continuità.

Le radici della crisi palermitana non sono solo amministrative. Sono culturali, educative, morali. Per vent’anni la città ha perso la sua narrazione civile: la scuola pubblica impoverita, i teatri chiusi, le biblioteche dimenticate. Le generazioni cresciute dopo le stragi di mafia non hanno avuto più un linguaggio collettivo del “noi”.

Le responsabilità sono diffuse: di parte della politica che ha guardato solo all’immediato, di parte della borghesia che si è rifugiata nell’indifferenza, delle istituzioni ai vari livelli amministrativi che non hanno costruito fiducia e concretezza nelle circoscrizioni. Eppure, la cultura continua a essere l’unica forma di resistenza reale. Artisti, operatori sociali, docenti, sacerdoti, cittadini semplici: Palermo resiste ogni giorno nei luoghi dove nessuno guarda.

La morte di Paolo Taormina non è solo una notizia, o almeno si spera che non sia la ripetizione di una dinamica già vista. Sarà davvero un punto di svolta, un campanello d’allarme che imporrà di guardare in faccia una realtà che Palermo conosce da anni ma che non ha mai saputo affrontare fino in fondo?

La città ha bisogno di memoria, di strumenti, di visione, e di un patto vero tra cittadini e istituzioni, prima che sia troppo tardi.

 

 

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