Ci sono settimane, come questa, che sono cibocentriche e trasformano la vostra Patti Holmes in una golosa Patti Chef che, attratta come una calamita dagli odori che si sprigionano nelle strade della nostra Sicilia, vi invita a fare tanti peccati di gola. Citando la frase di George Bernard Shaw che recita: “Le cose più belle della vita (e mangiare lo è) o sono immorali, o sono illegali, oppure fanno ingrassare”, sfidando l’etica, la legge e la bilancia, non poteva che parlare del re del cibo da strada palermitano e siciliano è cioè, squillino le trombe, si stendino i tappeti rossi, sua Maesta “U pani câ meusa”, godimento dei carnivori. Prima di addentarlo, però, anche se virtualmente, raccontiamone le origini.
Origini del pane câ meusa
A Palermo, sotto la dominazione dei musulmani e fino al 1492, all’interno di un proprio ghetto, (denominazione originariamente nata in una zona di Venezia assegnata, nel 1516, agli ebrei e chiamata così per la presenza di un getto, una fonderia), viveva una comunità di ebrei dedita a varie attività, tra cui l’arte della macellazione e dello spaccio che avveniva attorno alla piazzetta dei “caldumai“, i venditori d’interiora. Per ottenere carni pure, casher, gli animali dovevano essere macellati secondo riti ben precisi e per tale ragione, in città, esisteva un mattatoio per tale scopo. Gli ebrei, secondo i precetti della loro religione, non potevano accettare denaro per l’uccisione degli animali e venivano ricompensati con le interiora; ma come ricavare denaro dalle frattaglie ricevute?
Ecco che, con un colpo di genio, inventarono un piatto per i “cristiani” che si otteneva bollendo le frattaglie, per sterilizzarle, e vendendole per strada riscaldate nello strutto e messe in mezzo al pane. Questa leccornìa, che dimostra come la cucina siciliana sia per buona parte di origine casher, nonostante l’espulsione degli ebrei dall’isola nel 1492, non andò persa, ma fu continuata dal “cacciuttaru” che, mentre prima vendeva solo focaccine inzuppate di strutto fuso, ripiene di ricotta o caciocavallo fresco a fettine, da questa data in poi si diede, anche, a “u pani câ meusa”. Fondendo le due ricette nacque il piatto che conosciamo oggi, un panino intriso di strutto, farcito con milza, polmone e scannarozzato, la trachea, con limone o pepe, condito con caciocavallo, a listarelle sottili, o con l’aggiunta di ricotta. Qua nasce spontanea la boutade: “c’è chi la vuole schietta e chi la vuole maritata”; ma questi due aggettivi a cosa si riferiscono e, ad esempio, la vostra Patti Holmes, pur essendo schietta, la vuole maritata. Perché?
Addentriamoci in questa che appare una sorta di “agenzia matrimoniale” con la riflessione: “E se il maritata fosse una sorta di inno al matrimonio, che vuole mostrare la vita in due più godereccia, e la schietta, invece, il compatimento della “zitella”, anzi zingle, zitella più single?” Altra domanda: “e se le schiette fossero appassionate e le maritate più controllate?” La spiegazione, dopo queste farneticazioni, è che, in realtà, in passato veniva definita schietta quella condita solo con la ricotta, per esaltare il candore e la purezza di tale stato, mentre maritata, la più “carnale”. Oggi, a distanza di secoli, u pani câ meusa si prepara secondo la tradizione, che vi raccontiamo dettagliatamente:
“Una forchetta a due denti serve per estrarre le frattaglie fritte in un padellone inclinato in cui lo strutto è elemento fondamentale. Rapidamente scolate, sono inserite nella vastella, anch’essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito in carta da pane o carta assorbente“.
E adesso unitevi con la maritata, con la schietta, sapendo che farete lo stesso un indimenticabile peccato di gola.