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“Calati juncu, ca passa la china”

giovedì 26 Marzo 2020

Questo scritto prima era un altro scritto. Mi spiego meglio: qualche tempo fa avevo iniziato ad abbozzare qualcosa di feroce sulle nuove generazioni e la loro paura della morte. Scrivevo questo:

“Ho notato quanto sia scandaloso spiegare ‘Dei Sepolcri’ di Foscolo ai miei allievi. Alcuni di loro, non tutti, inorridiscono. E perché, vi chiederete? Perché si parla di sepolture, di morte. La morte per loro è un tabù, qualcosa davanti alla quale sono terrorizzati e non se ne deve parlare. D’altro canto però, le stesse persone che inorridiscono raccontano di vedere i fantasmi. Poi scopro, dai loro racconti confidenziali, che sin dalle tenera età guardano film dell’orrore, anche da soli. Allora mi si spiana una strada, apro l’uscio di una porta e tutto mi appare chiaro: la cultura consumistica, entrata ormai in modo capillare in ogni strato della società, estirpa le radici della memoria e distilla veleno con il suo substrato di immaginario.

Del resto i ragazzini oggi ci tengono tanto a festeggiare Halloween, a improvvisarsi streghe, vampiri e scheletri come in un gioco, ma se li portiamo al cimitero dai nostri cari, anche quelli che non hanno conosciuto, veniamo tacciati dagli adulti di essere troppo duri, insensibili. Rischiamo di traumatizzarli, dicono. Certo, perché ai ragazzini non si deve dire che esiste, la morte, non glielo dobbiamo fare sapere se non in modo edulcorato. Ma poi vedono i fantasmi, ne parlano come di una cosa certa, li descrivono nei dettagli. È chiaro che i ragazzini non c’entrino nulla e la responsabilità sia di noi adulti, dispensatori di dolcezze e attenti a eventuali traumi che i più giovani possano subire da una parte, ma poi permissivi e noncuranti di fronte a tutto quello che a loro possa arrivare dall’esterno, dall’altra (e parlo di film dell’orrore o violenti, ma anche di cellulari e videogiochi che li espongono anche al rischio reale del cyberbullismo o della pedofilia)”.

Tutto questo lo annotavo prima dell’emergenza Coronavirus. Nell’arco di pochi giorni la nostra vita è stata stravolta. Come in tutte le situazioni estreme, emergono aspetti dell’uomo e dei suoi comportamenti che non mi aspettavo: ci sono gli strafottenti, quelli che fino a qualche giorno fa dichiaravano sui social di essere a cena con quaranta persone; c’è il tizio con la mascherina abbassata che fuma la sigaretta e i fanatici della ‘sfincia’, accalcati davanti al bar o quelli delle ‘vampe’ di San Giuseppe. Poi ci sono quelli che esorcizzano la paura in modi diversi: ipocondriaci incalliti che diventano fatalisti e tentano di tranquillizzare chi gli sta intorno; maniaci dei numeri che ripetono i dati di questa emergenza in modo esaltato con lo scopo neanche troppo sotteso di fare terrorizzare gli altri; cultori del “digito ergo sum” che fanno a gara per condividere notizie ferali come se prima o poi non riusciremo a scoprirle da soli e mai che esprimano un loro pensiero, anche semplice ed essenziale.

Per contro ci sono i saggi che si sentono i cantori di questo disastro e non ci fanno mancare di farci sapere quanto siano al di sopra di noi comuni mortali. C’è anche l’ottantenne ossessivo-compulsiva con la mania dell’igiene, che sembra quasi una profetessa, circondata ormai da gente che è diventata come lei.

Io non faccio eccezione. Oggi i miei alunni non li vedo di presenza, ma davanti al monitor di un PC in videolezione. Non rinnego quello che ho scritto sopra, prima che tutto questo accadesse, ma voglio fare auto-delazione.Trascorro giornate intere in preda all’ansia e il tempo libero non lo ricopro leggendo i libri accatastati che mi ripromettevo di leggere, come avrei fatto in altri tempi. Piango davanti ai feretri trasportati dai camion militari, porto fuori il cane con il terrore che qualcuno mi si avvicini e mi sento “alluvionata dentro” come la combriccola degli zingari di “Amici miei” tanto per tornare a citare la celebre trilogia a cui questa rubrica si ispira.

La cultura non mi sta aiutando perché di fronte alla paura si è tutti uguali, anche se ci si attacca alla vita in modo diverso. Avverto la distanza da quel mondo in cui poveri, reietti e malati invocavano la sua falce che colpiva invece giovani, ricchi, regnanti e prelati come accade in quell’enorme ‘pagina miniata’ che è l’affresco dell’Abatellis, “Il Trionfo della Morte”, di cui poco tempo fa parlavo con enfasi. Il romanzo distopico, che ammiro particolarmente come genere perché squarcia il velo delle ipocrisie della società, non mi rende più sapiente ora che la distopia si è fatta realtà. Dove risiede allora la mia superiorità culturale rispetto ai miei alunni e al loro immaginario se di fronte a questa ondata non riesco neanche a rifugiarmi nel paradiso dei libri, nella calma dell’isolamento? Non sono diversa da loro: cresciuta in mezzo ai vezzi, ai comfort e iperprotetta.

Il tema della morte da affrontare in classe era più un appiglio di spocchia intellettuale che del vissuto e del sofferto, nonostante abbia già conosciuto il dolore della morte di alcuni miei cari. Camus ne “La peste” scriveva che la retorica, di fronte all’epidemia si inizia a fare prima e si fa dopo, mai durante, perché “soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ovvero al silenzio”. Beati quei saggi che al momento riescono a trovare e a esprimere le parole giuste. Io non ce la faccio a essere saggia.

Posso solo rivedermi da cima a fondo, essere onesta e ringraziare i miei alunni che mi stanno dando un insegnamento con i loro visini spaventati e pallidi davanti al monitor. Ho provato a immedesimarmi in loro, nelle loro paure, nella loro quotidianità di ragazzi a tutti gli effetti stravolta. Eppure ci sono, fanno i compiti, sono laboriosi e attenti. Grazie a loro ho ripreso per dovere i libri, ho spiegato la famosa poesia di Pascoli che parla del dolore umano, attraverso l’analogia con il dolore di una piccola rondine.

E ho pensato che devo adeguarmi per non impazzire.

Al famoso termine‘resilienza’, oggi abusato ben oltre il campo d’indagine della psicologia, perché fa trendy ed è dunque omologato e omologante, voglio però opporre un famoso proverbio siciliano: “Calati juncu, ca passa la china”, ovvero “Giunco, piegati per fare passare la piena del fiume”. Mi piace di più, lo sento mio, è pieno di immagini forti, rimanda a più campi semantici. Perché il giunco, così umile, si piega ma non si spezza. Trovo un rimando con la ginestra leopardiana, anch’essa umile e fragile che spande il suo profumo dove c’è solo distruzione.

E ritornando al giunco, con uno di essi, un giunco‘schietto’ Virgilio, su ordine di Catone Uticense, cinge la vita di Dante per avviarlo alla purificazione all’inizio del Purgatorio. Non a caso i proverbi dicono sempre una verità, siano anch’essi in contrasto tra loro.

Ma non è il tempo di pontificare né di mostrarsi più saggi di altri. È il tempo di fare, con umiltà, il proprio dovere.

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