Mia madre mi raccontava un cuntu che le raccontavano da bambina. Parlava della Mamma Draga che aveva le ‘minne’ talmente grosse che ci ‘scupuliava’ il forno. Era ovviamente un’immagine del Male, una strega che con la Dragunera, il vento di tempesta, ha in comune l’etimologia del nome e la sua associazione al drago e quindi al diavolo.
“La Dragunera” è il titolo del romanzo finalista al Premio Calvino, da poco pubblicato per “il Saggiatore”. Si tratta dell’opera prima dell’ennese Linda Barbarino, docente di italiano, latino e greco in un liceo classico. La Dragunera è la protagonista, una protagonista che poco si vede nel romanzo, ma di cui si annusa costantemente l’odore di zolfo, di cui si distingue la presenza inquietante, l’incantesimo di voluttà e sensualità che fa perdere la rotta, che può solo incendiare, affatturare e distruggere tutto quello che le sta intorno. È come se la Mamma Draga, per un sortilegio, avesse subito una metamorfosi nelle fattezze di una giovane donna che incanta, ma, come la Mamma Draga sia votata unicamente al Male. Sconvolgente questo romanzo, dove i personaggi che si muovono in primo piano inseguono la roba, i principii della famiglia, dell’onore, dell’amore impossibile.
Si riconosce il Verga de “La Roba” e “La Lupa” e le figure tragiche o grottesche della Grasso, in uno stile apparentemente spontaneo, ma che sottende un viluppo di pensieri e immagini sbrogliati come nodi, meditati e sofferti. Gli attori sulla scena sono soprattutto due: Paolo a cui “le femmine sempre gli erano piaciute” e Rosa, la Sciandra, la ‘buttana’.
Una prostituta di cui si ripercorre la vita attraverso vari flashback e che può suscitare, in modo struggente, benevolenza e pietà. Ma la Dragunera, poco presente sulla scena del racconto, c’è invero anche quando non si vede, e quando è presente, avvampa di luce maligna: “Appena se la vide davanti, sua cognata, in mezzo al mosto, si sentì ciuncare le gambe dallo scanto, la voce in mezzo alla gola. Era un’ombra coi raspi in mezzo ai capelli, si c’era fatta il bagno nel mosto; le colava nella faccia come sangue. […] Lo taliava sfottente, gli occhi rossi come quelli di Belzebù, la pupilla una linea come ai gatti, i serpenti”.
Questa donna-strega tesse la tela dei destini altrui attraverso il convergere e il divergere di fabula e intreccio che porta anche il lettore a essere sferzato dallo scudiscio che diventa ‘focugranni’, ‘acchianata’,‘santomo’ del colpo di scena. Sì, perché nel leggerlo è come se anche io mi fossi fatta impossessare da una lingua, il dialetto materno, che conosco e parlo solo con me stessa in un fondo oscuro e recondito dell’anima; quello che mi piace ascoltare nell’inflessione di un anziano zio nisseno e mi commuove sempre. Anche se non tutti di primo acchito decifreranno le possenti parti scritte in siciliano, posso ritenere che il romanzo andasse ineluttabilmente scritto così.
“Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, scriveva Pasolini. E il dialetto è la carne viva del mondo perduto che il romanzo evoca, è il substrato delle nostre coscienze. L’uso del dialetto dà sfogo a immagini che altrimenti verrebbero denudate e svilite in una lingua omologata. Per lingua omologata non s’intende solo l’egemonia dell’italiano, ma di un italiano imbastardito e veicolato dalla società dei consumi, un italiano risicato che si esprime attraverso slogan da social network, quello ormai dilagante.L’ambientazione in un’epoca e in un luogo non per forza decifrabili,oltre a essere un artificio di pura raffinatezza, rende l’atmosfera vaga ma universale. Perché l’incantesimo della passione senza freni e senza redenzione, la ‘magarìa’ ovvero il male non come entità astratta, ma calato in un essere ferino a noi prossimo e proveniente da esso, di fatto riecheggiano anche nelle nostre vite ‘moderne’ e apparentemente lontane dalla superstizione. Sono nel sogno collettivo dell’uomo, nelle paure e nei desideri oltre ogni tempo.
L’immagine del Male attraverso una sessualità peccaminosa, oltre a essere un archetipo, è soprattutto metafora del fuoco disturbante dell’ispirazione creatrice e proibita. È questa ad alimentare l’immaginazione dalle prime parole fino al sofferto e catartico epilogo.