Nei giorni scorsi a Palermo si è svolto un incontro promosso dal Partito Radicale sul tema delicato delle aziende sequestrate per sospetta collusione con la mafia. L’iniziativa ha focalizzato l’attenzione, in particolare, sul delicato tema delle aziende preventivamente sequestrate dalla magistratura e affidate alla gestione giudiziaria in attesa di verificare se gli imprenditori fossero stati in rapporti con la mafia.
Accertato che essi erano totalmente estranei a Cosa Nostra, le aziende sono state riconsegnate ai proprietari, ma nel frattempo erano ormai decotte, da liquidare, con imprenditori rovinati, decine e decine di famiglie sul lastrico e un’economia ancora più impoverita. Tra le diverse testimonianze che sono emerse nel convegno spiccavano quella dell’azienda Cavallotti che operava nel campo della metanizzazione, e quella dei Niceta, titolari di negozi storici della città molto apprezzati dai dai palermitani. Le vicende di queste aziende non sono, infatti, casi isolati ma simboleggiano una drammatica realtà che coinvolge tante altre aziende.
L’iniziativa non ha registrato l’attenzione che meritava, ignorata dai mass media, dalle forze politiche, dalla cultura giuridica, dalle associazioni di rappresentanza e dai soggetti che rivestono una responsabilità sulla materia. È il segno anche della crisi che sta attraversando il movimento antimafia per le ragioni che sono ben presenti all’opinione pubblica, frastornata dalla vicenda Montante, l’ex presidente di Confindustria e dallo scandalo Saguto.
Sembra evidente la necessità di correre ai ripari per correggere con modifiche legislative queste storture che provocano gravi ingiustizie. Episodi come questi, che coinvolgono la vita di tante famiglie restringono, infatti, l’area del consenso alla lotta alla mafia, alimentano la “neutralità”, possono riproporre il vecchio detto, che non vorremmo mai più sentire, che con la mafia si lavorava con l’antimafia si perde il lavoro.
Non vi è, inoltre, solo il problema dell’ ingiustizia di chi si vede sottratto, con l’accusa infamante della mafia, un patrimonio frutto del lavoro a volte di generazioni e poi risultati dalle indagini estranei alla criminalità organizzata, che dovrebbe indurre alle necessarie modifiche della legislazione penale. Accanto a questa circostanza vi sono poi i casi, ancora più numerosi, di aziende giustamente sequestrate e confiscate perché frutto dell’attività e del sostegno di Cosa Nostra e che affidate dallo Stato ai custodi giudiziari sono state trascinate, per incompetenza, al fallimento.
Al di là della vicenda Saguto di cui si sta occupando la magistratura che ha scoperchiato sull’affidamento dei beni e delle aziende una pentola di intrighi favoritismi, parcelle milionarie e altro ancora, non si può continuare ad affidare un rilevante patrimonio produttivo a procedure farraginose, a gestioni prive di criteri manageriali e di strumenti necessari a garantire l’attività e lo sviluppo delle aziende.
Quella che doveva essere l’occasione per creare aziende sane, un lavoro duraturo, che doveva disinquinare un pezzo dell’economia, si è rivelato un fallimento. Occorre, quindi, superare questa situazione, riformando l’agenzia nazionale sui beni confiscati, per ricreare quelle aspettative che interessa, in modo particolare, la Sicilia se si pensa che la maggior parte dei beni confiscati alla mafia è concentrata nell’isola e il 40% si trova a Palermo e nella sua provincia.
È tempo dunque che si riapra la discussione su un tema così rilevante, si confrontino proposte, anche perché può rappresentare l’occasione per ricostruire una nuova antimafia che superi limiti ed errori del passato.