La 19^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il secondo capitolo del nuovo romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
2° CAPITOLO
Nei giorni meno fortunati mi spronavano a rientrare per abbeverarmi dei loro colori e dei loro profumi. La Natura è miracolosa, mi rapivano quei colori e, con curiosità e interesse, tante volte, sono andata a vederli da vicino.
I miei occhi di ragazzina osservavano quei petali sfumati, con stupore.
La natura era per me un mistero, ma ero orgogliosa di vedere come il nostro giardino fosse il più bello di tutti gli altri delle case limitrofe.
Erano intensamente profumati quei fiori, e quell’effluvio di essenze è rimasto, anche dopo esser diventata donna, il mio preferito perché lo respiravo tutti i giorni, lo sentivo fuori e dentro casa, poiché era il mio papà ad averlo curato.
Talvolta, quando lo vedevo armeggiare con i suoi attrezzi, gli chiedevo: «Papà, mi piacerebbe sapere come fai a fare nascere questi fiori, voglio impararlo anch’io».
Mio padre, sorridendo, mi rispondeva: «tutto è possibile se di ogni cosa si comprende il suo segreto. Ricorda, Roberta, è l’amore che fa i miracoli. Vedi, io amo la terra ed essa può regalarci delle meraviglie come questi fiori che ti piacciono tanto».
«Ma non si fanno male, ribattevo, quando tu li tagli? Ti prego di non farlo più».
«No, mi rispose, mia piccola principessa dal cuore tenero. Tutto ha un costo ed ogni cosa ha un compito. Le rose non sentono male quando le taglio perché sanno che, regalandole a te e alla mamma, vi renderanno felici e arrederanno un angolo della nostra casa con la loro bellezza. Ogni cosa, Roberta, nasce, cresce, vive e muore. Quello che fa la differenza è la passione, l’amore con cui si vive. Certe cose noi crediamo che siano inanimate, ma non è così. L’arroganza dell’uomo lo allontana da un mondo più semplice ma generoso e vivo, che si dona a noi tutti i giorni. Le piante sono alcune di questi esempi di vita: ci ascoltano, avvertono il nostro contatto ma non si vendicano anche quando li oltraggiamo trattandoli come erbaccia».
A quel punto, appagata dalla spiegazione, lo abbracciavo mettendo in pericolo il suo equilibrio; e come una farfallina, volavo via seguita dal suo sguardo paterno, amorevole e orgoglioso di sua figlia, il suo fiore più bello.
Dopo la sua scomparsa, in camera mia, sulla scrivania trovai una busta bianca contenente dei petali di fiori secchi.
Corsi da mia madre, per chiederle: «Mamma, ho trovato questa busta, ne sai qualcosa?»
«No, mi rispose, le rose erano coltivate, curate e raccolte da tuo padre. Forse è il suo modo per farti sapere, tramite quei petali di rosa appassiti, che il suo amore per te, come quei petali, è eterno e ti sarà sempre vicino».
Ora so che gli amori veri e grandi non temono la morte che li sottrae al nostro sguardo, al nostro abbraccio ma non può cancellarli perché il cuore è imbevuto dei loro sorrisi, del calore del contatto, del significato delle loro parole che ci avvolgeva il cuore come una coperta preziosa e protettiva.
Quella volta, mentre mamma stava rispondendo alle mie domande, notai i suoi occhi lucidi. Cominciavo a diventare donna e, con arte del tutto femminile, notavo gesti e atteggiamenti che avrei rifatto io poi da persona matura.
Tentava di non cedere al sentimento.
Pensai al suo dolore per la perdita del compagno della sua vita. Avevano sempre condiviso tutto, anche il calvario della malattia.
Crediamo a volte, sbagliando, che le persone forti soffrano di meno. La forza non si misura dalla capacità di trattenere le lacrime, di coprire col silenzio ciò che ti urla dentro ma nel vivere ogni giorno con ciò che hai capito, imparato e vissuto, possibilmente senza rimpianto.
Pensai al pianto muto di mia madre quando era da sola, alla forza che aveva raccolto da ogni più piccola parte di sé per noi. Ci doveva difendere, proteggere. Ma lei a chi poteva chiedere, raccontare, dedicare sé stessa se l’uomo, che aveva amato e al quale aveva regalato i suoi figli non c’era più? Sapeva che avrebbe trovato la soluzione in sé stessa e non avrebbe permesso a nulla e a nessuno di considerare i suoi figli degli orfani. Era cambiato il suo soggetto d’amore: per tanti decenni era stato mio padre, dalla sua morte saremmo stati noi.
L’ultima stanza di cui non ho ancora parlato è quella di mio fratello. Non mi piaceva. Era troppo seriosa, al contrario della mia, luogo ideale per sognare.
C’erano giochi, bambole, vestiti eleganti che inauguravo quando con mamma e papà andavamo a teatro.
Avevo imparato a capire che ogni nostro comportamento ha radici profonde, alimentate da una ragione, ed io avevo capito perché evitavo la stanza di mio fratello.
Bisogna tornare indietro a una sera lontana, per quanto io ne abbia memoria; papà si trovava proprio in quella stanza. Proprio, come quando si avvicina il temporale, cambiò l’aria, si levò il vento e il sole si nascose per rispetto del dolore.
Mio padre si sentì male.
Vennero a prenderlo con l’ambulanza.
La mamma naturalmente lo seguì. Non eravamo abbastanza grandi per capire che la vita ha queste sequenze; è soggetta a continue trasformazioni, che assomma in sé il bello e il brutto e che l’uno deve coesistere con l’altro.
Noi bambini venivamo protetti da questi fatti allontanandoci da casa. Io fui affidata alla signora che abitava al piano superiore al nostro.
Ero triste e bisognosa di risposte ma nessuno me le diede. Certe spiegazioni sono compito di persone che hanno il ruolo per poterle spiegare e che non hanno mai tradito la nostra fiducia.
Avevo paura di perdere il grande amore della mia vita: quel papà che mi aveva dato tanto da non farmi sentire veramente la mancanza di un altro uomo fino all’età adulta.
Non è un caso che mi sia sposata a 45 anni.