La 32^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il quindicesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
CAPITOLO 15
Misuravo e comprendevo la sua perplessità, avrebbe capito se avesse saputo una verità: amarmi significava misurarsi con un sogno.
Dovevano passare altri anni, ed altri eventi sarebbero accaduti prima di capire che un ti voglio bene può avere più valore di un ti amo.
Il bene è la conquista di tanti valori: volere il bene dell’altro, la fiducia, la stima, la complicità.
L’amore è brivido, è toccarsi ed esplodere, è un arcobaleno, è ridurre il proprio vocabolario ad un solo avverbio: per sempre.
Ma dai sogni ci si risveglia e la vita di tre persone stava mutando.
La mia, quella di mia nipote Marzia e quella di Viviana, la sorella di Roberto.
Ci sposammo tutte e tre nel 2000.
Mia nipote si sposò a Cortina, in un mondo tutto bianco, da favola; aveva la bellezza di chi ha la vita dentro di sé e a rappresentarlo un cuore dentro un laghetto ghiacciato.
Margherita, infatti, la prima dei loro quattro figli c’era già e in quel Sì che si scambiarono i suoi genitori, c’era la consapevolezza di un’esistenza creata e voluta.
Viviana si sposò a fine agosto, nel suo paese di nascita, un piccolo borgo della Sila dove le tradizioni erano scrupolosamente osservate.
Andammo tutti, eccetto la mia mamma per non affaticarla.
Quel giorno fummo contenti di vedere Viviana veramente felice. Non aveva avuto una vita facile, lottando con la sua malattia e perdendo la mamma. La rispettavo e avrei voluto poterla aiutare di più.
Io e Roberto ci sposammo la prima settimana di settembre, con una cerimonia molto intima e semplice, ma molto sentita.
Mia madre era felice e mi regalò tanti complimenti, forse per compensare quelli che mi avrebbe fatto il mio papà, del quale, quel giorno, ho sentito la mancanza.
Dopo una bellissima crociera nel Mediterraneo, riprese la vita di prima, ma dentro di me c’era inquietudine. Adesso a non piacermi non era più solo il lavoro ma il ruolo di moglie/collega.
La mia vita era diventata molto più faticosa. I tempi cambiavano, ci si doveva adeguare alle nuove tecnologie che erano in pieno boom.
Si riducevano i costi per il personale, ci stavamo affacciando in un’era più informatizzata e l’uomo con le sue invenzioni si sarebbe autoescluso dai processi di produzione.
Pensavo tanto a cosa potevo fare, consapevole che il mio futuro e il mio matrimonio corressero seri pericoli.
A mio sfavore giocavano anche gli anni, mi consideravano vecchia per ricoprire determinati ruoli.
Nel mondo del lavoro si affacciavano tanti giovani, opportunamente formati e acculturati.
Nessuno capiva il fermento esistente dentro di me, mia madre che avrebbe potuto, era adesso in un ruolo di figlia e non mi permetteva di confidarle i miei problemi.
Roberto, come sempre, si accontentava.
Questo eccessivo immobilismo mi riempiva di insoddisfazione che arrivò ad un passo della depressione.
Chissà perché tutti si limitavano a considerare il dolore fisico e non il coinvolgimento mentale che ci fa sentire falliti anche se, attorno a noi, tutto vive!
Non mi sopportavo, non mi riconoscevo in quella donna senza spinta, con la mente sempre attiva, dinamica contrapposta ad un corpo che era fermo.
Abitavamo al settimo piano di uno stabile molto carino.
Si godeva una stupenda panoramica della città e mi regalava certi tramonti che solo la poesia avrebbe potuto descrivere.
Eravamo al di sopra della normalità, del traffico, dei rumori, con una città stesa ai miei piedi che avrebbe reso pazza di gioia madre ed io, invece, mi lasciavo vivere. Feci il passo decisivo per cambiare pagina.
Andai a parlare con il Direttore del personale e valutammo l’opportunità di un prepensionamento.
Ecco la strada da percorrere; lo feci e il 31 dicembre 2012 ero libera. Non avevo pensato alle ore libere che mi sarei trovata a vivere, con cosa occuparle, io che ero così incline alle conoscenze nuove, alla discussione, alla vita di gruppo.
Festeggiammo il Capodanno a Napoli, ma la consapevolezza di iniziare un nuovo capitolo della mia vita arrivò successivamente.
Dopo una spensierata vacanza, ritornammo a casa.
Roberto riprese il lavoro ed io mi trovai con un vuoto enorme che mi rendeva ansiosa. Cercai di capire cosa potevo fare per non pensare.
Durante quel periodo valutai quanto l’io che c’è dentro di me fosse esigente e iniziai a muovermi.
Ero consapevole che a risolvere i miei problemi dovevo essere sempre io; gli altri poco si accorgevano di quanto traspariva, della mia insoddisfazione.
Frequentai mostre, musei. Mi iscrissi ad un corso di Psicologia e, forse non a caso, visto il mio interesse ad esplorare l’animo umano e l’importanza della sua salute!
Feci anche del volontariato, aiutare gli altri mi piaceva ma non risolvetti il problema. Mia madre veniva a trovarmi qualche pomeriggio.
Anche nei suoi riguardi dovetti prendere atto che la persona che per tanti anni avevo visto combattiva e forte non c’era più. Mi mancava un suo cenno, un suo proverbio, una sua carezza, ma quella parte di lei che aveva sempre dormito dentro di sè, aveva dovuto fare i conti con una realtà imprevedibile e amara.
La morte di papà, per lei, fu un deporre le armi, fece affiorare la sua stanchezza e il bisogno di essere accudita.
Un problema si aggiungeva agli altri e da risolvere velocemente, perché non poteva più stare da sola, era un rischio.
Caterina Guttadauro La Brasca
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Andrea Giostra
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