La periferia nella periferia. Brancaccio oggi si presenta così, anche nel giorno in cui si commemora, ormai da 26 anni, l’assassinio di Padre Pino Puglisi, il parroco ucciso dalla mafia, nel giorno del suo compleanno, davanti l’abitazione di piazzale Anita Garibaldi.
La sofferenza e le conseguenze di quegli spari ancora riecheggiano nell’aria di questo quartiere che vive quotidianamente l’emarginazione sociale, la povertà, l’abbandono delle istituzioni. Nella storia della mafia in Sicilia, Brancaccio è stata la roccaforte di nomi eccellenti delle famiglie di Cosa Nostra: Graviano, Contorno, Grigoli, questi solo alcuni dei ‘fuoriclasse’ che hanno padroneggiato tra queste vie, ramificando il loro potere anche fuori dall’Isola. Nomi che ad oggi sono ancora presenti nel quartiere attraverso, mogli, madri, cugini e zii. Nomi che probabilmente hanno perso quel prestigio, quel potere e principalmente quella forza economica che riusciva a imporre la loro strategia socio-politica e il malaffare. Nomi che al di là di tutto hanno una forma di rispetto nel quartiere e nelle zone limitrofe della periferia.
Al di là di Buscetta che nell’immaginario mafioso è da sempre icona dell’ ‘infame’ a causa del suo essersi “pentito”, è impossibile che un cognome come Graviano venga sussurrato con disprezzo tra i vicoli del quartiere.
Don Maurizio Francoforte è il parroco che da circa 10 anni dice messa nella chiesa di San Gaetano, la stessa che ha visto Padre Pino Puglisi sporgersi da un altare per professare ‘antimafia’. Termine che oggi, stando alle cronache dei giornali (vedi il processo Montante ed altri ndr), ha perso il suo valore intrinseco, soprattutto se confrontato con la verità morale dell’operato di don Puglisi.
“Don Pino non era un prete antimafia è la mafia che è anti-evangelica. Bisogna comprendere bene questa cosa: è l’atteggiamento e l’azione che contano dentro questa chiesa e fuori nel quartiere. Pino Puglisi non ha combattuto la mafia, non ha fatto il lavoro di Falcone e Borsellino, meritevole; don Pino è andato alla base scalfendo la mentalità mafiosa che è il vero mostro da combattere”, ci tiene a precisare don Maurizio.
È lui che, giorno dopo giorno, respira l’odore del tessuto sociale di questo quartiere. Non può che rendersene conto, senza pregiudizi verso chi ad oggi ancora ci vive. Soprattutto non può che commemorare l’uccisione di Padre Puglisi in modo umile e semplice. “Ci si pone il problema che un giovane con un cognome eccellente di mafia possa ricevere un sacramento piuttosto che domandarsi come mai possa frequentare scuole dalle quali sfornano le classi dirigenti della città”.
Ieri alle 21 si è svolta una fiaccolata che, partendo da via Brancaccio, è arrivata davanti al luogo in cui Gaspare Spatuzza ha sparato a don Puglisi.
“Quello che riscontro”, afferma a ilSicilia.it don Maurizio, “è un progressivo allontanamento delle generazioni dalla vecchia mafia che negli anni ha tuttavia subito trasformazioni: se i nonni di un tempo erano mafiosi, i padri non sono entrati più nelle azioni dirette e i nipoti, oggi, conoscono questa realtà facendo parte di schemi sociali differenti. Questo non significa che tutti i giovani oggi sono esenti da atteggiamenti criminali, anzi, è quello che più mi preoccupa della realtà qui nel quartiere. Alcuni giovani vanno in cerca di un tipo di mafia molto più spettacolarizzata, da bulli, stile ‘gomorra’, che trova vantaggio nel possedere un ‘certo nome’. Questi ragazzi, essendo molto più appariscenti, è più facile che vengano individuati, dall’altro lato però sono più pericolosi perché sono più radicati nel territorio e sono più violenti”.
Il parroco che conosce bene le periferie di Palermo, in quanto è stato per molti anni anche allo Zen, racconta che ad oggi i proventi di Brancaccio arrivano per lo più dall’imposizione del pizzo. Lo spaccio scarseggia rispetto alle piazze di Bonagia e dello Sperone. Insomma: “la mafia non investe più sul territorio”. Ma come la mafia, quella dei grossi business, ha lasciato per certi versi Brancaccio al suo destino, anche lo Stato non è stato da meno. “Da quando sono qui ho visto un percorso di decrescita e degrado maggiore rispetto a dieci anni fa. Hanno fatto due cose che strategicamente hanno condannato al degrado il quartiere: la chiusura di via Brancaccio con l’abolizione del passaggio a livello, e conseguente chiusura di quel lato, che conduceva fino a Piazza Scaffa. Si è creata, così, un’enclave che ha generato un crollo socio-economico e culturale: si è tornati ai cosiddetti ‘catoi’ e alla dilagante dispersione scolastica dei bambini, che stanno per strada con le immediate conseguenze prevedibili. Sono stanco di ripetere sempre le stesse cose e di sentirmi rispondere sempre ‘Si però.. non si può fare perché non è norma’; a Brancaccio se vuoi fare le cose devi percorrere altre strade, quelle del clientelismo politico o dell’appoggio dello ‘zio Totò’ di turno vedendo se ti aiuta. Queste non sono strade che corrispondono al nostro percorso etico ed evangelico”.
Ma come succede nei periodi di campagna elettorale, ogni anno, nei giorni che precedono i preparativi della commemorazione di Padre Pino Puglisi, i politici spolverano le loro giacche più brillanti per recarsi da don Maurizio e chiedergli la solita e retorica domanda: “Come possiamo aiutarla?”.
Esempio concreto: pare che ci siano due terreni, di proprietà del Comune di Palermo, che si trovano nei dintorni della rotonda Norman Zarcone, uno dei due sarebbe già stato destinato alla costruzione di un asilo; di fronte, invece, si dovrebbe realizzare un parco per bambini. “Noi chiediamo questo terreno, così per com’è, da quattro anni e sempre ci sentiamo rispondere che prima deve essere sistemato e poi, previo progetto e domanda diretta, si può valutare la donazione. La cosa più assurda è che pur avanzando un progetto, assolvendo quindi a tutte le richieste burocratiche, per come sono organizzate le cose, rischiamo che ci venga affidato un bene ad esempio a Sferracavallo, in qualsiasi luogo della città, che a noi non gioverebbe affatto dovendo puntare sulla territorialità delle offerte sociali e culturali. Anche quando poi i progetti vengono accettati passano decenni prima che si concretizzino”.
Quindi, Brancaccio è come se fosse stata abbandonata su tutti i fronti. E soprattutto l’enorme vuoto creato dagli arresti eccellenti di mafia in questi anni non pare sia stato colmato dalla presenza costante e reale delle istituzioni, che latitano nella periferia palermitana da troppo tempo.
“Il buco che ha lasciato la mafia, cosa paradossale e che mi fa rabbia – continua don Maurizio – con gli arresti dei nomi eccellenti non è stato colmato dalle istituzioni con degli strumenti validi perché questo territorio fosse in grado di liberarsi totalmente da certi meccanismi. Brancaccio è stato abbandonato due volte. Poi si chiede alla gente che qui vive che denunci se stessa, cosa assurda: io chiedo a chiunque venga qui da me, non il pedigree familiare. Se sento un cognome particolare, io chiedo esclusivamente una coerenza di vita cristiana. Lo Stato a queste persone che hanno ‘cognomi noti’ ma che hanno scelto una strada diversa non ha dato nessuno supporto per poter vivere rettamente lungo la strada della legalità: costoro, in alcun casi, per poter ‘essere dimenticati’ hanno dovuto cambiare un paio di sillabe nel loro cognome”.
A questo punto qualcuno potrebbe pensare che nemmeno l’uccisione di un parroco è stata in grado di generare quello slancio verso l’alto, utile al progresso sociale di Brancaccio. Camminando per le strade, questa periferia sembra essere la fotografia sbiadita della violenza perpetrata nel quartiere. Dai grandi palazzi, che nei loro scantinati offrono zone appartante che ben si prestano ad essere laboratori per l’illegalità, dalle turnazioni dello spaccio per strada, dalle sigarette di contrabbando, ai bingo clandestini.
Ma don Maurizio non perde la sua missione di speranza, anzi. “Il sacrificio di don Puglisi è servito assolutamente, la situazione è peggiorata sì, ma quando ho davanti ragazzini di dieci anni che, a dispetto del cognome che portano, dimostrano di avere nella figura di don Pino un punto concreto di riferimento a cui appoggiarsi nell’esempio e nell’azione, allora non c’è dubbio che la morte di don Pino abbia portato frutti abbondanti. Negli anni questo è stato reso possibile grazie all’ostinazione di operatori sociali, insegnanti, volontari, che hanno tenuto vivo il messaggio e la figura di don Puglisi. Noi palermitani, dico una cosa brutta, l’abbiamo nel Dna la mafia, l’unico modo per sconfiggere questo mostro è riconoscere di essere persone malate allora possiamo cercare di correggerci e curarci in alcuni comportamenti. Questo processo non si può verificare senza l’aiuto e la presenza costante dello Stato e dell’esempio di ogni singolo cittadino: è una mentalità virulenta che, se tralasciata anche per un attimo, ritorna attiva”.
Aspettarsi, dunque, che il quartiere a gran voce si schieri contro la mafia appartiene più ad un frame cinematografico, all’happy end che tutti ci aspetteremmo, banalmente, stando seduti comodi in poltrona a guardare una realtà sintetica ma che, nella realtà reale, lasciateci passare il gioco di parole, è impossibile da ipotizzare.