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Romanzi da leggere online: 19° capitolo del romanzo “La voglio gassata”

domenica 15 Settembre 2019

La 36^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il diciannovesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca,La voglio gassata”.

CAPITOLO 19°

Una tappa della nostra vacanza romana fu la visita alla tomba di Papa Woytila, un Papa che ho ammirato per il suo coraggio, che non si è fatto fermare dalla sua malattia e che ha raggiunto tutti i cuori, di credenti e non.

Davanti alla sua tomba mi denudai, con un pianto liberatorio, di tutto ciò che avevo dentro.

Ho dato fondi ad una riserva di lacrime che erano state da tempo represse.

Quel pianto è stato la mia preghiera e non c’era bisogno di altro.

La malattia mi rendeva più ricettiva ai sentimenti, mi commuovevo molto facilmente.

Intanto Marzia era diventata di nuovo mamma, la sua maternità era il giusto connubio tra fermezza e dolcezza, si occupava di ciascuno dei suoi figli, tenendo conto delle loro diversità e coltivando le loro passioni. Ero fiera di quella nipote che aveva realizzato pienamente sé stessa facendo la madre e la moglie e non aggrappandosi a nessuno.

Aveva, in famiglia, tanti esempi per poter capire che le grandi passioni sono quelle che ti salvano nei momenti critici della vita.

Un’altra nuvola si intravvedeva all’orizzonte. Il papà di Roberto si sentì male, ebbe un infarto.

Era l’ultimo saggio che era rimasto delle nostre famiglie. Avevamo paura di perderlo, io gli ero affezionata e mi dispiaceva che Roberto vivesse quel terribile dolore che ti fa sentire tradito dalla vita.

Ero, un giorno, in sala d’aspetto e incontrai il cardiologo amico del mio papà.

Mi chiese con premura: «cosa fa qui?» Gli raccontai l’accaduto e volle vedere e visitare subito il papà di Roberto.

Ci disse che il peggio era passato. Vidi il viso di mio marito distendersi e, dopo aver salutato il cardiologo, si rivolse verso di me e disse: «Non sai il regalo che mi hai fatto, grazie Roberta».

Avrei voluto ridarglielo completamente guarito proprio come avevo desiderato veder tornare a casa mio padre, dopo l’ultimo ricovero.

Veder soffrire una persona che ami tanto fa affiorare dentro di noi la tenerezza, la voglia di rassicurazione, diventiamo noi genitori e loro figli.

Dopo due settimane il papà di Roberto fu dimesso. Emy, dopo la morte di mamma continuò a lavorare per me e per tanti miei amici.

Aveva sempre le giornate piene e i soldi che guadagnava li spediva a casa perché ai suoi figli non mancassero di nulla e potessero continuare gli studi.

Quella piccola donna era stata una grande mamma perché, anche se a migliaia di chilometri di distanza da loro, riusciva a far sentire la sua autorità e ad avere in cambio il loro rispetto.

Conquistavano il rispetto dei figli, la stima degli amici esercitando con fermezza il loro ruolo, abituando i figli alle rinunce, a lottare per difendere il loro diritto ad esistere e ad essere rispettati. Non avevano letto nessun trattato di psicologia, avevano percorso chilometri per procurarsi l’acqua da bere tenendo sulla schiena l’ultimo nato, infastiditi dalle mosche e dalle zanzare che li tormentavano in quei percorsi lunghi e malsani.

L’ammiravo ed ebbi la conferma del rispetto dei suoi figli quando una di esse le chiese, per telefono, il permesso di potersi fidanzare con il suo ragazzo.

Quella era la prova che ciò che conta non è vivere nella stessa casa con i propri figli, ma aiutarli, esserci quando hanno bisogno, non transigere nell’inculcare loro i più importanti valori della vita.

Io l’ho sempre aiutata, ho regalato il mio amore ai figli delle altre mamme, visto che io non potevo più esserlo. Certe volte, con sincerità verso me stessa, mi chiedevo: «Avresti voluto esserlo?»

Non rispondevo per non mentire a me stessa, e cercavo di amare chi non era amato.

Ci sono tanti modi di essere madri e non ce n’è uno migliore di un altro.

Talvolta mi sorprendevo a pensare al ritorno di Emy nella sua famiglia, per godersi finalmente i suoi figli e il frutto di tanti anni di fatica.

Era partita giovane e la rivedevano quasi vecchia, quei figli che lei aveva lasciato bambini erano già grandi, avevano frequentato la scuola e cercavano un’occupazione che permettesse loro di fare famiglia e di sostenerla. Emy avrebbe pensato: «Non è stato vano il mio sacrificio, quante lacrime guardando quelle fotografie già sbiadite per averle baciate la sera, quando dopo una giornata di lavoro, poteva cercare nei loro volti le tracce di quegli occhioni spauriti he la guardavano andar via senza capirne la ragione.»

Quel pensiero mi intristiva ma, subito, mi dicevo: «Roberta, ricorda il vero amore è quello che ci lascia liberi, lei ne ha dato tanto a tutti, ora è tempo che viva quello che le verrà restituito. La casa dei miei genitori adesso era libera.»

La fatica di salire7 piani mi faceva balenare l’idea: «e se tornassi ad abitare nella mia cuccia”? Così la facemmo restaurare per abitarla.»

Il colore predominante era il panna, il padre di Roberto vide l’appartamento quasi finito e lo trovò bellissimo. Non era da lui usare il superlativo assoluto.

Da lì a pochi giorni ci lasciò. Roberto che, quotidianamente, andava a mangiare da lui, quel giorno andò molto prima come se sentisse che era meglio esserci.

Mi sono dispiaciuta di non essere con lui quando visse quell’attimo in cui i piccoli malintesi, le divergenze di opinioni, le offese, tutto viene azzerato da quel momento in cui senti che la tua parte migliore se ne va con lui.

Avresti voluto prendere il suo posto ma la natura ha i suoi tempi e le sue leggi.

Adesso eravamo entrambi senza genitori, eravamo soltanto noi due, con un amore che avrebbe dovuto compensare quelli che ci sarebbero mancati.

Non eravamo né genitori né figli ma solo un uomo e una donna che si amavano, che erano complici, presenti in ogni difficoltà, il confidente l’uno per l’altra.

Avevamo raggiunto quel confine in cui, senza parole, ci si prende per mano e si va avanti.

Ci trasferimmo nella nuova casa, si sa, a noi donne piacciono i cambiamenti, ogni volta è come chiudere con il passato e iniziare un’altra vita.

Molti amici frequentavano casa nostra, mi piaceva il dono dell’ospitalità, una cena consumata insieme.

Ero sempre attiva nel volontariato e avevo sposato una causa che riguardava i cani abbandonati.

Sicuramente mi ritrovavo in una donna con una vena riparatrice, fare la casalinga non mi era congeniale, volevo vivere, a fondo e bene.

Non ero mai appagata, quando uscivo dall’ospedale, avvertivo di più la voglia di cercare nuove emozioni, di regalare agli altri questo mio insaziabile bisogno di vivere.

Ogni tanto tra week end al mare, mostre, concerti e viaggi, avvertivo una strana sensazione che non mi fermavo ad ascoltare, forse per la paura di nuove sorprese.

Una sera, prima del Capodanno, mio marito mi regalò un audio libro, pensai di mettermi a letto e leggerlo.

Era “L’Amante” di Dumas, una storia d’amore di una giovanissima francese con un milionario cinese dell’Indocina degli anni Trenta.

Mi piaceva questo nuovo modo di leggere.

Ero sotto il tepore delle coperte, con questa voce che mi raccontava una favola, mi sentivo in una cuccia, al riparo dal freddo e per un attimo pensai: “vorrei fermare il tempo.”

Mi stupì questo pensiero- Fermare il tempo significa fissare un momento e viverlo all’infinito.

No, avevo alle spalle giorni meravigliosi, ne volevo avere altri, non mi bastava vivere di ricordi.

Volevo la mia favola, quella che ancora non avevo vissuto. I momenti delle verifiche del mio stato di salute erano sempre difficili da vivere

Tra tutti gli esami che facevo ce n’era uno che cercavo sempre di dilazionare: “la mammografia.”

Mio marito che conosceva bene questa mia avversione, decise per me, e il pomeriggio del 29 gennaio 2009, andammo insieme.

Il medico mi disse che voleva approfondire l’indagine con una risonanza magnetica, il cui solo pensiero mi turbò.

Come potevo fare la risonanza se non prendevo da sola nemmeno l’ascensore?

Tutto ciò che mi toglieva la luce, lo spazio, costringendomi all’immobilità mi infastidiva.

Qualcuno disse che siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni e questo, penso, sia la nostra forza ma anche il nostro limite.

Per sentirmi viva ho bisogno di avere anche soltanto un piccolo progetto. Allora si attivano in me capacità, altruismo, collaborazione e mi sento felice se raggiungo l’obiettivo.

Non mi aspetto né ringraziamenti né ricompense perché mi appaga essere stata utile a qualcuno.

Uscimmo e il mio viso rifletteva ciò che avevo dentro: paura.

Roberto, che mi conosceva bene, mi disse prendendomi a braccetto per ricordarmi che non ero sola: «Cosa sono quegli occhi cupi?»

«Non vorrai che sia allegra, gli risposi quasi sgarbata, chi lo sarebbe se gli avessero appena detto che il suo regalo per San Valentino sarebbe stato una risonanza magnetica?»

«Innanzitutto, lui ribadì, non l’hai scelto tu. Gli ospedali sono un mondo a parte, dove un’ora, un giorno possono fare la differenza nella vita di una persona. Tu lo sai, perché sono anni che li frequenti e sei fortunata perché hai vinto tu, quanti, invece, non ce l’hanno fatta!  Cosa vuoi che sia un esame il 14 febbraio, la risonanza durerà un’ora, ne avremo altre 23 da vivere come vogliamo.»

Non era semplice farsi capire da chi, fortunatamente era sano. Desistevo dal discutere per non aggiungere alle mie preoccupazioni anche delle discussioni spiacevoli.

 

In copertina: Oscar Murillo (La Paila 1986), «Manifestation of Loss», 2017, cm. 158×107, olio, spray, grafite e serigrafia su carta.

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