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Chiara Bentivegna, scrittrice e attrice siciliana | INTERVISTA

mercoledì 16 Ottobre 2019
Chiara Bentivegna
Chiara Bentivegna

Benvenuta Chiara. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori?

Le presentazioni mi sono risultate sempre difficili, non so mai cosa dire di me perché mi sperimento in tante cose e sono sempre convinta di non dare mai abbastanza. Di una cosa poi sono certa: noi non sappiamo mai chi siamo, sappiamo solo quello che facciamo. Ecco perché secondo me rimane giusto il dannunziano “Memento audere semper”: bisogna sempre ricordarsi di osare, non rinunciare mai; da troppo tempo non osavo la pubblicazione e per me – che poi in realtà mi sento molto timida e pigra – è una prova. Credo di aver vinto tante paure grazie a questo.

Chi è Chiara nella sua passione per l’arte della scrittura?

Credo di trovare espressione autentica proprio nell’arte. Ho sempre amato la letteratura, la pittura, la fotografia, la musica, l’arte in genere e ne sono una buona – anche se non esperta -fruitrice. Ho imparato a leggere prestissimo e sono stata sempre affamata di sapere e curiosa di esperienze; la vita ha percorsi più tortuosi della letteratura e della fantasia e spesso sono stata delusa dalla fame di comunicazione e scambio umano. Il mondo poi ti suggerisce spesso un ruolo fisso e io sono a questo un po’ refrattaria. Cosa meglio del teatro per aver occasione di esprimere quello che la quotidianità non ti permetterebbe di fare. La scena ci permette di dare espressione a quella tanta parte di noi che rimane sommersa, ci permette di dare sfogo alla fantasia e di sentire e trovare, con l’anima e con i sensi, luoghi inesplorati e non visibili neanche a noi stessi; entrare nei panni di un altro ci rende al contempo più riflessivi, più attenti ai tempi del compagno di scena, soprattutto ai tempi del gruppo e del pubblico, ci riporta ad una dimensione più completa – ed empatica, diremmo oggi – di cui io sento spesso bisogno. La scrittura nasce con me, scrivo da quando ho imparato a scrivere, è una necessità non troppo esternata, una dimensione molto privata, intima quando si tratta di poesia. Vivo quasi quotidianamente questa necessità, specie ultimamente. Ho tanto altro oltre a questa raccolta. Ho avuto il coraggio di mettermi a nudo aiutata da questa rielaborazione quasi eretica dell’haiku. Riuscirò a ordinare anche altro, fra cui alcuni racconti “visionari”.

Qualche settimana fa, nel mese di settembre 2019, hai pubblicato con la casa editrice Kimerik di Patti (Messina), una racconta di Haiku dal titolo “Cinquantadue Settimane e Frammenti dell’Anima”. Intano ci spieghi cos’è un Haiku?

Cover cinquantadue-settimaneGli haiku sono una forma di poesia che nasce in Giappone, probabilmente nel Diciassettesimo secolo, formati da tre versi costituiti in totale da 17 more – e non sillabe – secondo lo schema 5-7-5. Una mora, nella metrica classica, era una unità di misura di durata simile alla sillaba. Sono componimenti che esprimono l’armonia/disarmonia con la natura e attraverso essa dicono di chi scrive. Per questo spesso dell’haiku è da cogliere in non detto. L’haiku è stato amato da alcuni dei più grandi scrittori del Novecento, da Rainer Maria Rikle a Paul Eluard, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. Negli haiku ha più peso il non detto, che è comunque espresso, rispetto a quello che viene detto. Sono componimenti molto codificati, all’interno una parola che potremmo definire chiave, il kigo, dà precisa indicazione delle stagioni e del momento – anche se io non obbedisco molto al codice e utilizzo poco correttamente il kigo, aggiungendo spesso anche la punteggiatura. Sono stati definiti componimenti dell’anima. Forse è per questo che mi sono avvicinata all’haiku dopo aver letto Ungaretti. La metrica antica e i frammenti dei lirici greci mi hanno fatto decidere di dedicarmi da occidentale a questo metro orientale per ritrovare la mia parte di anima.

Adesso parlaci di questa silloge, qual è stato il tuo progetto editoriale e di cosa parlano le tue poesie, se possiamo definirle così? Raccontaci qualcosa su questo libro per incuriosire i nostri lettori.

Il libro è dedicato “A tutti coloro che amano.” È la storia di un amore scandita dalle settimane di un intero anno. La raccolta è composta di 52 haiku – poco ortodossi – e 22 componimenti aventi lo stesso metro (5/7/5) che costituiscono una silloge. L’haiku ha la pretesa di dire in maniera da unire suono, colore e anima, l’universale e insieme il transeunte in modo semplice ma evocativo. È per tutti. Le 52 settimane di un anno, che ha inizio in piena estate, scandiscono la storia sentimentale che si snoda nella silloge complementare Frammenti dell’anima – dove il numero dell’utopia, 11, è moltiplicato per due. Un confronto fra due mondi e due modi di sentire che si esplica anche nel diverso modo di intendere, nelle due parti, il componimento poetico, sebbene identica sia la forma metrica.

Una domanda un po’ difficile Chiara: perché i lettori di questo magazine dovrebbe comprare e leggere il tuo libro? Cosa diresti loro per convincerli a comprare e a leggere “Cinquantadue Settimane e Frammenti dell’Anima”?

Il libro ha in sé molteplici forme: la forma di questo particolare componimento che è l’haiku, vissuto in maniera eretica da un’occidentale con animo irruento e per questo meno attenta ai formalismi codificati dell’haiku; ha poi una seconda forma: il racconto di una storia con la sua chiusa dopo un sogno vissuto per due. Entrambe queste forme sono analogiche, procedono cronologicamente e raccontano. Il libro ha però una terza forma digitale. Può essere inteso come un insieme di momenti che illuminino senza raccontare, momenti che rassicurino, avvertano o consolino. Una mia amica mi ha detto che ogni haiku può servire da pensiero positivo per il giorno. Lei apre il libro a caso e il libro sembra parlarle. Ho trovato lusinghiero ma vero quest’aspetto.

Stai lavorando ad un nuovo libro? Cosa puoi anticiparci dei tuoi prossimi progetti editoriali e artistici?

Chiara Bentivegna
Chiara Bentivegna

Come dicevo ho già diversi lavori da consegnare alle stampe. Uno è dedicato a mio figlio, Valerio Stancanelli, ed è, alla maniera jodorowskiana un insieme di favolette che rispondono a delle domande “morali “, l’altro è un insieme di racconti visionari, il viaggio di un’anima attraverso diverse vite, o forse una sola. Sto finendo il lavoro di limatura in entrambi e si sa che è la parte più faticosa e più lunga.

Qual è stato il tuo percorso artistico letterario e quale la tua formazione professionale che ti hanno permesso di avere gli strumenti per scrivere questa raccolta e di realizzare opere che interessano i tuoi lettori e i tuoi follower?

Ho sempre scritto versi, e letto poesia. Ho adorato i frammenti dei greci e mi sono tuffata, da adolescente melanconica, sui versi di Leopardi e poi di Lorca. Passato il feel blue adolescenziale -grazie anche alla dimensione sociale del teatro – dopo la laurea con una tesi su Dante, ho continuato le mie letture arrivando fino alla letteratura orientale. Il mondo del frammento greco rimaneva. Mi sono occupata di poesia femminile e ho frugato nel mondo antico occidentale e orientale insieme ad un gruppo femminile nazionale che si occupava di letteratura femminile. Il libro porta questi segni. È nato nel corso di due anni anche se le cinquantadue settimane ne segnano solo uno; ha dentro la misura immediata dell’haiku e la vita interiore del frammento greco della lirica femminile. È un haiku non convenzionale. Io sono siciliana, non giapponese e da siciliana (seppur nell’epoca fluida dei social) posso esprimermi. Il mio mondo non può rispettare un kigo – nel dettaglio – se non in maniera artificiosa. Dell’haiku sento e respiro il legame con la bellezza della natura e dell’universo, la necessita del cogliere il particolare universale del quotidiano ma il resto è non convenzionale e me ne scuso ma sarebbe stata una forma priva d’anima.

«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto lfra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito». (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905).

Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?

Mi fai tornare sui banchi di scuola. Mi sembra la traccia di un tema come si facevano fino alla fine degli anni Novanta, ma questo mi piace, e anche tanto. Proust si e ci pone un problema a me caro: l’estetica come valore e come ricerca, non come rifugio. Difficile far diventare universale il particolare, scendere nell’abisso e risalire sani e più forti, conoscere comporta questa discesa. È più facile il confortevole mondo della fantasia sfrenata e allucinata dove i nostri desideri sono soddisfatti, le nostre sconfitte dimenticate e trasformate in vittorie. La scrittura come mezzo di conoscenza ha per me il suo punto di partenza nell’incomunicabile e nella sofferenza che ne comporta, un incomunicabile che è disagio e che per questo viene sondato e portato alla luce: è questo riflettere su noi e sul nostro adattarci all’universo che vorrei arrivasse al lettore. Non mi piace fornire belle vie d’uscita in figure vincenti ed eccezionali. Io sono una come tanti. Il tempo dei supereroi è finito qualche anno fa, non ci crede più neanche mio figlio che per anni mi ha dipinta come un supereroe.

«Per scrivere bisogna avere immaginazione. L’immaginazione non si impara a scuola, te le regala mamma quando ti concepisce. Non ho fatto nessuna scuola per imparare a scrivere. Ho visto tanti film e letto tanti libri». (Luciano Vincenzoni (Treviso 1926), intervista di Virginia Zullo, 12 aprile 2013, YouTube).

Tu cosa ne pensi di queste parole di Vincenzoni, grandissimo autore di opere cinematografiche del Novecento italiano?

La fantasia puoi educarla o aiutarla, Munari insegna. Per il resto io non so. Io so che la parola è una delle possibili strade e che studiando Aucouturier ho imparato che l’uomo pensa per storie. Credo però di essere stata fortunata e aver trovato il modo per aiutare la fantasia ad incanalarsi.

Chiara Bentivegna«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così». (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.)

Sei d’accordo con Bukowski? Tu cosa ne pensi?

Penso che Bukowski avesse ragione. Anche per me la forma è relativamente importante. Come ti dicevo prima quello che mi interessa è l’anima, il respiro, il sentimento che sia quando scrivo che quando leggo – anche quando rileggo me stessa – mi deve arrivare.

«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in essa». (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.).

Tu cosa ne pensi delle parole del grande poeta del Novecento Bukowski? Qual è la tua opinione in merito? È davvero così la poesia contemporanea? Disgustosa e nauseabonda perché superficiale e scopiazzata dalle grandi opere dei secoli scorsi?

Sorrido. Non sono davvero nessuno per giudicare. Io scrivo e basta ma la borghesissima forma non mi appartiene. Certa poesia femminile che parla di Leopardi come pensatore e non come poeta mi inorridisce ma non per la forma stavolta, ma per il contenuto poco nobile – a dispetto del nome -del giudizio antileopardiano.

Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge)?

Mi aspettavo questa domanda. Io non credo sia poco importante la forma, tutt’altro. Credo che però la forma sia il guscio di pirandelliana memoria. Deve vedersi anche la forma, l’espressione deve essere incanalata ma deve rimanere viva. Se l’anima e la sua espressione sono un fiume e la sua corrente, la forma deve riuscire a canalizzare l’anima, a farla arrivare, con la forza della sua espressione ancora intera, a chi ascolta. Dante oppure Ungaretti, così lontani nel tempo, sono stati poeti che hanno codificato moltissimo, in modi diversi. La forma in entrambi è un canale di comunicazione, contiene il non esplicitamente detto.

Quali sono secondo te le caratteristiche, le qualità, il talento, che deve possedere chi scrive per essere definito un vero scrittore, un vero poeta? E perché proprio quelle qualità?

Vivi la verità e racconta il necessario. Non appartenere nel narrare neanche a te stessa, non concederti comodi angoli visuali. Sono queste le cose che ripeto a me stessa. Ognuno poi sceglie per sé. Non so definire, mi spiace.

Perché secondo te oggi è importante scrivere, raccontare con la scrittura?

Non io ma Lamberto Maffei, presidente e accademico dell’Accademia Nazionale dei Lincei e neuropsichiatra, scrive Elogio della Parola. È importante non perdere la parola e la sua ricchezza. Sono un patrimonio conservato nella pagina scritta. Oggi stiamo perdendo le parole.

Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi?

I greci, i classici, Saffo, Orazio, Seneca, Dante – esempio della codificazione poetica significativa e non solo nel medioevo – Leopardi, Foscolo, Pasolini, Calvino, ma anche Rilke, Lorca, Borges, Jarry, Queneau, anche quello degli spassosissimi Esercizi di stile , la Sachs, Celan, Anne Sexton, e poi sopra tutti Pessoa, in cui a volte mi perdo, e Ungaretti che adoro e che spesso in classe, quando lo studiamo, faccio ascoltare ad occhi chiusi, stando attenta a darne corretta lettura.

Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori.

Insegno lettere e sicuramente per me la domanda è difficile. Di autori da consigliare ce ne sono troppi. È importante leggere e studiare. Lo stile si impara scrivendo, esercitandosi. Ma se proprio devo dare un consiglio direi di leggere “Poesie esoteriche” e “Il libro dell’Inquietudine” di Pessoa, la poesia di Rilke e la prosa asciutta ma magistrale di qualsiasi libro di Sciascia. Cinque anni fa mi ero unita ad un gruppo di promozione di letteratura femminile e insieme a Dona Amati, cercavamo di promuovere la letteratura scritta dalle donne. Credo sia una cosa importante.

Nel gigantesco frontale del Teatro Massimo di Palermo, la mia città, c’è una grande scritta, voluta dall’allora potente Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile del Regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, che recita così: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». Tu cosa ne pensi di questa frase? Davvero l’arte e la bellezza servono a qualcosa in questa nostra società contemporanea fondata sulla tecnologia e sulle comunicazioni social?

Non sono social nel senso tecnologico e ho lasciato Facebook. Sono per una comunicazione non tecnologica. Credo talmente in quella frase – non so come tu abbia fatto a saperlo – che sto studiando per scrivere un saggio sul bello etico, su una bellezza necessaria, che comunichi e trasmetta dignità, armonia e verità come in alcuni secoli ha fatto l’arte.

Dove potremo seguirti?

Cosa vuoi dire? Non sono social, te l’ho detto ma ci proverò, magari adesso mi iscrivo a Instagram! In realtà, come Pessoa, ho un eteronimo, ma su Facebook Artemis Luts è un essere virtuale come il social stesso. Provo davvero, chiusa l’intervista a creare un profilo Instagram e magari una pagina Facebook. Per adesso mi trovate in libreria e online sulle maggiori piattaforme di vendita libri – anche Amazon – e sul sito della casa editrice, la Kimerik. Uscirà anche l’ebook.

Come vuoi concludere questa chiacchierata? Come vuoi lasciare i nostri lettori?

Vorrei non lasciarli. Spero di poter pubblicare presto i racconti. Prometto che proverò anche i canali social.

 


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