Il regista palermitano Luca Guadagnino firma una doppietta in questo ricco 2025 cinematografico, tornando al cinema con “After the Hunt (Dopo la caccia)“. Un thriller che ha ragion d’essere proprio nell’affondare il coltello nel contemporaneo, mettendo in crisi lo spettatore su dinamiche che conosciamo ormai troppo bene. Tra accuse di molestie, vittime e carnefici, il film gioca sui concetti di morale e ambiguità in un crescendo di tensione da perfetto giallo psicologico da camera.
La trama
Alma Olsson (Julia Roberts), affermata professoressa di filosofia all’università di Yale, si trova in una fase cruciale della sua carriera e della sua vita privata. Mentre punta a ottenere una cattedra stabile, il suo matrimonio con Richard (Michael Stuhlbarg) inizia a incrinarsi sotto il peso delle ambizioni reciproche e dei silenzi accumulati.
Quando Maggie Price (Ayo Edebiri), una delle sue studentesse più “brillanti”, accusa di molestie sessuali Hank Gibson (Andrew Garfield), stimato collega e amico di lunga data di Alma, anche lui in lizza per la stessa prestigiosa cattedra, la donna viene travolta da un conflitto morale e istituzionale che scuote le fondamenta della sua vita.
Costretta a scegliere tra lealtà, verità e sopravvivenza accademica, Alma si trova a fare i conti con la propria integrità e con un segreto del passato che minaccia di emergere, mettendo in discussione tutto ciò che credeva di essere.
La recensione
Inizia come un film di Woody Allen il decimo lungometraggio di Luca Guadagnino. Titoli di testa su schermo nero, musica jazz in sottofondo e i nomi del cast che scorrono con lo stesso elegante font bianco tipico del regista newyorkese. Ma le similitudini non si fermano qui. L’intento di Guadagnino sembra proprio quello di evocare le atmosfere, replicando ambientazioni e personaggi che da sempre popolano il cinema di Allen con una certa intellighenzia colta e sofisticata, qui però lontana dalla commedia e più vicina a titoli come “Crimini e misfatti”, “Match Point”, “Sogni e delitti” o “Irrational Man”. I dilemmi morali e personali che sconvolgono questi personaggi, immersi in un raffinato ambiente universitario (“Accadde a Yale”, recita la scritta iniziale), sembrano riprendere quella morale alleniana ma con uno sguardo tutto contemporaneo.

Il film affonda il coltello in dinamiche che conosciamo fin troppo bene, ma lo fa senza essere banale, pedante o ricattatorio. Guadagnino sceglie piuttosto di porre lo spettatore in una posizione scomoda, invitandolo a interrogarsi costantemente. Il suo maggiore pregio sta forse proprio nella scrittura di personaggi così reali e imperfetti da sembrare vivi anche dopo la fine della proiezione, quando le luci della sala si sono ormai spente. Ogni figura è respingente, fragile, contraddittoria e ricca di sfumature che restituiscono una tridimensionalità rara nel cinema contemporaneo. Basta osservare come Guadagnino dirige gli attori e li fa muovere in scena per comprendere la sua maestria. Andrew Garfield, eccezionale nel ruolo dell’accusato, viene filmato in gesti che parlano più delle parole. Il modo in cui siede con le gambe sempre aperte (quello che oggi si definisce manspreading), come mangia o gesticola, suggerisce fin da subito un carattere predatorio e sessualmente aggressivo, ma al tempo stesso carismatico e magnetico.
È per questo necessariamente colpevole? All’opposto, il personaggio interpretato da Ayo Edebiri appare fin da subito come antipatico, respingente, e col passare del tempo lascia emergere un lato opportunista e arrivista. Ma ciò la rende meno degna di ascolto o di sostegno dopo la presunta molestia subita? Al centro, la magnifica Julia Roberts (mai così intensa da anni) incarna una protagonista costretta a navigare nel caos morale che la circonda. Alma ascolta, giudica, si contraddice e si rivela progressivamente come una donna piena di fragilità e scheletri nell’armadio. Il marito, interpretato da Michael Stuhlbarg, è quasi il suo contrappunto. Un uomo “quasi perfetto”, empatico e lucido, che sembra comprendere prima di tutti ciò che si cela dietro le maschere dei protagonisti. “Ho vinto la battaglia ma ho perso la guerra”, dice in un tentativo di riconciliazione con una moglie ormai troppo distante.

La regia di Guadagnino è posata, asciutta e quasi chirurgica. Scava senza compiacimento, mettendo a nudo le fratture generazionali e morali dei suoi personaggi. Da un lato la Gen Z, cresciuta in un mondo in cui tutto è scandalo e ipersensibilità, dall’altro gli adulti, incapaci di leggere i tempi nuovi e prigionieri delle proprie incoerenze. “Non tutto ha lo scopo di farti sentire a tuo agio”, recita la Roberts in una delle battute più emblematiche del film. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, per Guadagnino lo sono le mani, che qui sono spesso inquadrate e rivelano più di quanto i personaggi dicano, vogliano ammettere o ‘recitino’, in un lungo copione ricco di cliché da cui i protagonisti tentano disperatamente di allontanarsi. Merita una menzione speciale anche la colonna sonora, firmata ancora una volta dal duo, ormai sodale del regista, Trent Reznor e Atticus Ross. La loro partitura riecheggia le atmosfere perturbanti di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, con improvvisi tagli sonori che richiamano il miglior Bernard Herrmann nei più celebri film di Hitchcock.
Ne risulta un thriller filosofico e profondamente maturo, in cui nulla è ciò che sembra e in cui tutti, in misura diversa, hanno insieme ragione e torto. Con After the Hunt, Guadagnino conferma di essere un regista con ancora molto da dire, anche quando ciò che racconta è scomodo, disturbante e non sempre facile da accogliere.





