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“Ai tempi della Cucco”. Dialogo con Clelia Cucco

giovedì 12 Marzo 2020

‘Ai tempi del cucco’ è un’espressione idiomatica che sta a indicare qualcosa avvenuta in tempi immemori, che se qualcuno li ha vissuti è insomma, vecchio come il cucco, un animale che di regola dovrebbe essere il cuculo, ma per tutti è invece un rapace notturno. Il barbagianni o la civetta. Clelia Cucco invece è un’attrice e la città di Palermo è piena di manifesti che pubblicizzano i suoi spettacoli insieme a Ernesto Maria Ponte, suo compagno sulla scena e nella vita.

Strana creatura per questi tempi, la Cucco: è bella, con riccioli biondi e occhi azzurri, assomiglia a una Madonna dei tanti dipinti di Filippino Lippi, eppure sui social non posta sue immagini da vamp in pose sexy né tanto meno i suoi book fotografici, anche se potrebbe permettersi di proporsi come una “Bella Figheira”. Per contro, le sue foto la mostrano sorridente e gioiosa, di un’allegria che è qualcosa in più della semplice leggerezza, ma dissacrante ironia e soprattutto autoironia. Quando arriva, mi saluta affettuosamente. Appeso al collo reca un ciondolo raffigurante un cucco, una civetta, ma lei precisa che si tratta della nottola di Minerva, perché l’attrice è anche professoressa di greco e latino.

Clelia, come sono i tempi della Cucco?

«Se ti riferisci a quelli della mia giornata, strettissimi e ventiquattrore non mi bastano. Ho imparato a vivere in macchina, facendo lì cose incredibili e rocambolesche come addirittura lavarmi, mangiare, truccarmi e provare il copione».

Intendo anche in senso più ampio… Come sono questi tempi in cui il viso della Cucco campeggia gigantesco lungo le strade della nostra città?

«Sono tempi difficili. Ecco, vedi, non ho vissuto mai tempi facili. Quando entrai alla scuola del Biondo dopo tre provini, quasi tutti gli aspiranti (novecento per quindici posti) si erano fatti preparare da attori più o meno conosciuti. Io non ne sapevo niente e mi preparai recitando davanti a mia madre. Al Biondo ho studiato recitazione, ma contemporaneamente all’università studiavo Lettere classiche. Dopo una giornata trascorsa a teatro, arrivavo a casa di notte e iniziavo a studiare per l’università; ero un animale notturno, proprio come il cucco. Alla fine della scuola di recitazione, il fatto di provenire dal Biondo non mi ha aiutata nel lavoro. Storcevano il naso. Così ho deciso di crearla io una compagnia teatrale, si chiamava “Fiori di carta” e la dirigevo, dovendo occuparmi anche di conti e fatture, cose che sconoscevo e che ho imparato. Ho tirato avanti con grande forza anche grazie ai miei genitori, due persone tenaci e combattive. Difficilissimi sono i giorni che stiamo vivendo: l’epidemia di Coronavirus ci ha fatto piombare in una realtà di paura, in cui tutto risulta ribaltato. Viviamo sospesi e sospesi sono anche tutti gli spettacoli. Ma, a parte l’emergenza contingente, per quanto riguarda il mio lavoro di attrice i tempi sono sempre difficili perché sono donna, perché sono ultra trentenne, perché in questo mestiere l’aspetto esteriore conta tanto e perché non paga non essere una primadonna».

Cosa intendi per primadonna?

«La primadonna è quella che si mette in mostra, che cerca di avere i riflettori puntati su di sé, che non ha problemi a pestare i piedi agli altri, mettendo zizzania. Niente che non si trovi già in Aristofane. Ma non devi andare a teatro per conoscere una primadonna, la puoi trovare in ogni microcosmo della società, in politica, in famiglia, nei posti di lavoro, forse pure nel volontariato e oggi sfortunatamente o, fortunatamente, anche sui social. Dico così perché sui social si assiste a un esibizionismo esasperato e grottesco che ti mette tristezza, ma che, essendo grottesco, ti fa ridere. Ecco, io non sono capace di mostrarmi in questi termini, nonostante reciti, sono molto riservata sotto questo profilo».

Ma le primedonne possono essere anche uomini?

«Assolutamente sì. Ti ripeto, il fenomeno tra noi attori è più evidente. Ma anche l’attore (uomo o donna che sia) arriva a fingere fino a un certo punto. C’è il momento in cui gli cade la maschera ed è quello degli applausi. Gli stronzi li accolgono con sufficienza, non donandosi del tutto al pubblico. Lo capisci dal loro viso, ma anche dalla spalle, dalla postura. In quel momento l’attore è nudo e allora distingui gli stronzi dalle belle persone».

Dal teatro di prosa, sei passata alla compagnia con Ernesto Maria Ponte, il tuo compagno. Reciti in commedie, dunque e cabaret…

«L’incontro con Ernesto è stato l’ingresso in un altro mondo. Il teatro di prosa non ti dà notorietà, la tua faccia non la trovi spiattellata dovunque e non lavori tutto l’anno. Ernesto è un attore e un autore che si dà completamente, un uomo generoso, ma che pretende tanto. Con lui si lavora tutti i giorni dell’anno senza pausa. Il teatro tutto è disciplina, lavoro duro, è fatto di regole che devi seguire con rigore. Io comunque non inseguo la notorietà, lo so che sbaglio e che dovrei promuovermi di più sui social, ma proprio non ce la faccio, non mi appartiene. Ciò che voglio veramente è stare sul palcoscenico per sentire quell’odore stantio che a volte sa di muffa, a volte di terra bruciata, per ripetere tante volte anche lo stesso spettacolo perché non sarà mai lo stesso, ogni volta è una ierofania, una manifestazione del sacro. Per questo, quando reciti devi godere, devi avere un orgasmo in scena».

Oggi cosa può dirsi veramente irriverente?

Clelia Cucco e Giovanna Di Marco
Giovanna Di Marco e Clelia Cucco

«Irriverente davvero è la semplicità. E poi, a dispetto di quello che si pensa del lavoro dell’attore che si immagina molto bohémien, anche le regole del teatro sono irriverenti. In quest’epoca di successo facile, di youtuber e infuencer, le regole sono irriverenti».

Chi sono i tuoi personaggi?

«Non si può dire. Già mi viene da ridere a pensarci. Vedi, la mia compagnia è formata da Ernesto, Roberto Spicuzza, Tiziana Martilotti che interpreta sempre la palermitana e Rossella Leone, che interpreta sempre la pugliese. E Clelia? Quando Ernesto e Salvo Rinaudo scrivono i copioni, buttano giù le cose più impossibili per farmi impazzire e divertirsi alle mie spalle. Clelia ha interpretato la rumena (e allora sono andata in giro a registrare rumeni che parlavano, sembravo una stalker) e la milanese (e allora ho dovuto studiare la Finocchiaro, la Mondaini, la Melato). L’ultimo mio personaggio è una donna dei primi del ‘900 con la patata in bocca…»

La patata in bocca?

«Sì, la classica palermitana griffata della Palermo bene che parla come se avesse una patata in bocca… Una di quelle che tiene la Louis Vuitton un po’ sotto il polso e il braccio sollevato come se tenesse la busta della spesa. Insomma, il tipo umano di donna palermitana che apre tutte le vocali. Quella della Palermo ‘bane’, appunto, scrivi: ‘BANE’. C’era quindi questo contrasto tra gli abiti d’epoca e l’inflessione contemporanea. Ma in fondo sono contenta che mi affidino questi ruoli all’insegna del trasformismo, per me sono nuove sfide e mi diverto da matti».

Cosa fa ridere di più la gente?

«Oltre alle parolacce e alle battute sul sesso, il pubblico ride guardandosi allo specchio: di fronte a scene di situazioni quotidiane come visite mediche, rapporti di coppia o rapporti umani in generale. Sì, ridono di se stessi».

Cosa dicono i tuoi alunni quando scoprono che sei un’attrice?

«Io non lo dico mai ma loro mi “googlano” (si dice così?) e lo scoprono subito. Si emozionano, vengono a teatro, si fanno le foto con le locandine degli spettacoli. Faccio di tutto per avvicinarli alla classicità, improvvisando anche Euripide in dialetto siciliano. Tutto purché conoscano il mondo classico. La classicità si studia perché è attuale. Anzi, per ritornare alla domanda che mi hai fatto prima, aggiungo che anche la classicità è irriverente. Ci ha detto tanto, quasi tutto sull’uomo, ne ha tirato fuori la complessità e le contraddizioni. In questa epoca che è il trionfo del vacuo, la classicità è contro corrente».

Sono d’accordo e lo sai che per questo veniamo reputate vecchie come il cucco?

«Lo so. E non mi dispiace affatto».

 

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