Come sempre accade, chissà poi perché, sono le persone che arrivano da altri luoghi a riconoscere il valore e la peculiarità della storia, delle tradizioni e di tutti quei corollari che connotano la Sicilia.
Innumerevoli le riflessioni nate dallo stordimento nel vivere questa terra, dalle infinite manifestazioni “che al continentale, forse al siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi”.
A questo processo non si è sottratto Alan Lomax, etnomusicologo, antropologo e produttore discografico statunitense che, per amore della musica, girò tutto il mondo fino a giungere in Italia e, nel 1954, in Sicilia.
L’esito, tra gli altri, del suo passaggio nel bel paese fu il libro, “Il più bell’anno della mia vita”, che contiene note e riflessioni poetiche suscitate, in gran parte, dalla passaggio in Sicilia.
Conosciuto come grande ricercatore e studioso di canti popolari, l’Isola rappresentava per lui un buon bacino da cui attingere per le sue registrazioni: versi tramandati oralmente, canti, sonorità riprodotte non necessariamente da strumenti musicali e poi, ancora, le preghiere laiche di contadini, pescatori e minatori.
Questo e tanto altro colpì Lomax al suo arrivo nell’Isola.
“La luce a Trapani è lattea. Il sole appare per gettare una leggera foschia bianca su ogni cosa. La città è come una forchetta che si protende sul mare, su un rebbio la città, sull’altro la salina, in mezzo il porto, dove si trova ancora un certo numero di barche a vela e di golette, ora usate per il commercio del sale”.
Accompagnato dal musicologo Diego Carpitella, Lomax scoprì una quantità inaspettata di storie, fatta di parole, melodie, fatica ed affanni, rischiarati da una luce e da un calore che solamente in questa terra aveva conosciuto.
Così ebbe origine la più grande e significativa raccolta scientifica del patrimonio etno-musicale siciliano.
Sopraffatto da una mole di situazioni e di emozioni inaspettata cominciò anche ad annotare su un diario pratiche di lavoro, momenti di vita quotidiana e incontri ‘particolari’.
Una girandola di personaggi, diversi e caratteristici ognuno a modo loro: Orazio Strano, un invalido di Riposto che viveva “in una stanza dipinta di rosa con disegni di fiori dorati, sposato con cinque figli, e non avendo pensione, si esibisce in piazza e per le vie del paese”; e poi Vittorio De Seta, i mietitori di Sommatino e i raccoglitori di mandorle di Avola.
E ancora Roberto Genovese, conosciuto a Palermo, che raccontava la storia di Orlando e di Rinaldo, ogni pomeriggio in un parco pieno di palme, al pubblico “più povero e peggio pagante d’Italia”; gli zampognari di Maletto e gli stornellatori di Mirto.
Di questi ultimi si è parlato, proprio qualche giorno fa, in occasione del Capo d’Orlando Blues festival, organizzato dal Cross Road Club a Villa Piccolo: Mirto, sui Nebrodi, con i suoi canti popolari e le registrazioni fatte da Lomax rappresenta, infatti, un tassello rarissimo nel patrimonio culturale siciliano.
A Lomax, nella sua attenta e curiosa scoperta di luoghi e facce, non passò inosservata anche una pratica al limite dell’incomprensibile per un uomo venuto dall’America: si trova scritto, infatti, nel taccuino delle note spese una cifra destinata ad un “disturbatore” e un’altra alla voce “maffia”.
E’ trascorso più di mezzo secolo dal passaggio di Lomax in Sicilia e di certo questa terra, al di là del patrimonio etnostorico, è cambiata molto, attraversando più di un’oscura notte per arrivare ad essere quella che è oggi.
E forse, in fin dei conti, ci servirebbe ancora un occhio esterno, attento come fu quello di Lomax, per guardarci da fuori e comprendere meglio questo intricato gioco di specchi.