«Il nostro lavoro non è notorietà bensì missione, vocazione. Non è esibizione ma rappresentazione della vita. Un lavoro estremamente delicato e pieno di responsabilità» (Annalisa Insardà)
Reality Shock Tropea – di e con Annalisa Insardà
Ciao Annalisa, benvenuta. Grazie per la tua disponibilità e per aver accettato il nostro invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te quale Annalisa attrice e artista di teatro e della settima arte?
Grazie a voi per questo spazio e per la possibilità che mi date di raccontarmi. Come spesso dico di me, ritengo di essere un’ottimista per nascita un’ironica per vocazione e una dissacrante per necessità. Questa è Annalisa persona, ma Annalisa attrice non solo non può prescinde da queste caratteristiche ma addirittura le amplifica. L’artista, secondo me, non può prescindere dalla persona.
… e Annalisa donna che vive la sua quotidianità, chi è e cosa fa che puoi raccontarci?
Noi siamo abituati a raccontare la vita degli altri, raccontare la nostra in genere è molto più complesso e articolato; vita che di fatto sospendiamo puntualmente per vestire i panni dei nostri personaggi. Raccontare la donna che sono impone anche lunghe pause e lunghi silenzi. E suoni a volte distorti, a volte dirompenti, spesso centrati, ma sempre aritmici.
Chi sono e chi sono stati i tuoi maestri d’arte, se vogliamo usare questo termine? Qual è stato il tuo percorso artistico/formativo ed esperienziale nel mondo della recitazione?
Il mio percorso artistico/formativo è quel tipico percorso che un tempo poteva considerarsi standard, ma che oggi è diventato un modello caduto in disuso. Io mi sono formata alla scuola del teatro, ho studiato all’Accademia d’Arte Drammatica della Calabria, ho continuato a formarmi alle Accademie di Varsavia e di Amsterdam con degli stage appositi condotti in queste nazioni, ho respirato polvere di palcoscenico seguendo alcuni tra i più grandi attori italiani, imparando da loro e rubando, come si dice in gergo, il mestiere. Questa, che dovrebbe essere il percorso ordinario per chi vuole approfondire un talento avuto in dono, è oggi considerata una strada estremamente lenta e noiosa, appannaggio di scorciatoie che accelerano spesso i tempi ma non garantiscono la giusta qualità e la forza di “restare” nel mondo del lavoro, perché per esprimere al massimo le proprie potenzialità in termini di talento, è necessario il giusto spazio, il giusto tempo, è necessario che ogni insegnamento sedimenti, è importante studiare, leggere, osservare, con disciplina e costanza; il tempo è necessario perché si strutturi bene la visione e, quindi, la direzione artistica di un attore, non è semplicemente tempo che passa per raggiungere la notorietà, il nostro lavoro non è notorietà bensì missione, vocazione. Non è esibizione ma rappresentazione della vita. Un lavoro estremamente delicato e pieno di responsabilità. Io vengo da questo percorso e da questo insegnamento. Grazie a Dio ho incontrato tanti maestri che hanno fatto di me ciò che sono, non tutti quelli che avrei voluto, ma quelli che ho incrociato e ammirato, ancora adesso li ringrazio per ogni cosa insegnatami. Insegnare significa lasciare un segno, e i loro segni su di me sono estremamente tangibili.
Come definiresti il tuo stile recitativo? C’è qualche attore o attrice ai quali ti ispiri?
Io cerco dentro me la verità, quella che viene dalle origini, dalla terra. La mia credibilità è la stessa credibilità che i miei personaggi hanno agli occhi del mio pubblico. Quando vengo creduta, ho raggiunto l’obiettivo.
Quali sono le opere teatrali e cinematografiche alle quali hai partecipato e che vuoi ricordare in questa intervista?
Credimi, non vorrei né generalizzare, né essere estremamente e noiosamente specifica. Poiché di ogni opera fatta conservo aspetti positivi e negativi, persone avvincenti e negative, non mi sento di citarne alcune a dispetto di altre. Non renderei giustizia a tutto il mio percorso.
Chi sono i registi con i quali ti piacerebbe lavorare? E perché proprio loro?
Ho lavorato con registi molto importanti nel panorama nazionale e non solo. La gioia provata e gli insegnamenti ricevuti sono oramai struttura nella mia vita. Ma non ho degli obiettivi prefissati in questo senso; ogni regista capace di prendermi tutto ciò che gli serve, svuotandomi di forza e necessità, e contestualmente riempendomi di soddisfazione e pace per il mio contributo alla sua idea, è un regista col quale voglio lavorare, che sia di grido, che sia sconosciuto.
«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello che facciamo?
Conta il tipo di persona che vogliamo diventare. Come ho avuto modo di dire in precedenza, l’artista non può prescindere dalla persona. La persona che scegli di essere è lo stesso artista che ti segue e prende forma dentro di te. Io sono della filosofia che le cose si ottengano con la determinazione, la costanza, lo studio e anche la disciplina e il senso della gerarchia. Questo non ha nulla a che fare con il successo; il successo per come è generalmente inteso altro non è, per usare a prestito le parole di Kipling, un impostore. “Successo”, tra l’altro, è una parola declinata al passato, piuttosto che avere successo preferisco il gerundio, che in inglese sarebbe il presente progressivo.
« … è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato» (15 settembre 1984, Taormina). Ascoltando queste parole dell’immenso Eduardo de Filippo che disse nel suo ultimo discorso pubblico tenuto a Taormina, cosa ti viene in mente, cosa pensi della figura dell’artista da questa prospettiva defilippiana, se vogliamo? A te cosa accade quando sali su un palco di teatro per recitare, oppure quando sei sul set per girare una scena di un film?
A me accade una cosa molto simpatica da raccontare ma estremamente complessa da gestire. Il pensiero prima dell'”Azione” o del “Chi è di scena?” è: “Chi me l’ha fatta fare?! sempre sottoposta al giudizio del pubblico, del regista, del collega, del giornalista, di chiunque. Chi me l’ha fatta fare…”. Associato a questo pensiero più o meno disfattista c’è una stanchezza cronica che mi travolge, inizio a sbadigliare come se non avessi mai dormito in vita mia, come se fossi sveglia da generazioni, una stanchezza che altro non è che ansia da prestazione. Un’ansia necessaria però, ché se non ci fosse vorrebbe dire che invece di avere una tensione sana verso l’azione che sto per compiere, sarei seduta su chissà quale triclinio a godere di chissà quali rendite artistiche. E tutto questo dura finché l’occhio della macchina da presa non mi ha catturata o finché non ho detto la prima battuta sul palcoscenico; dopodiché il tutto diventa inesorabile, e la necessità di sopravvivere al forte senso di responsabilità e di vivere fino in fondo quella forte emozione, prende fortunatamente il sopravvento.
«Io vivo in una specie di fornace di affetti, amori, desideri, invenzioni, creazioni, attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in base ai fatti perché l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in quello che faccio, ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato grazie a tutto questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo stesso fisica e metafisica…» (Anais Nin, “Fuoco” in “Diari d’amore” terzo volume, 1986). Cosa pensi di queste parole della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quando l’amore e i sentimenti così poderosi incidono nella tua arte e nelle tue opere?
Ti basti sapere che sono sia una possibilista che una donna che vive nella completa dismisura. Sono fatta di sentimenti esclusivamente poderosi.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse… «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito. Secondo te a cosa serve l’Arte, e l’arte della recitazione, del teatro e del cinema in particolare?
L’arte in qualche modo affranca dalla miseria e dalla corruzione dell’anima. L’arte rende la vita “Vita” e non sopravvivenza. Restituisce alla vita il bello che le ingiustizie perpetrate dagli uomini le sottraggono. E ha una proiezione di vita che forse la vita stessa non ha, perché fortemente compromessa dalle bassezze umane.
«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28, Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è l’amore per te e come secondo te è vissuto oggi l’amore nella nostra società contemporanea?
“L’Amore è Dio e Dio è Amore” recita la Bibbia. L’Amore è dunque associato al divino, al totale dono di sé. Io lo credo fortemente. L’Amore è il sentimento senza condizioni, senza limiti, anche senza pietà, che brucia senza consumare. Oggi l’Amore è liquido come la società, per citare Bauman. Di una qualità transeunte e inconsistente da averne quasi paura. Ma non dell’Amore ma di chi lo considera un diversivo a tempo determinato.
«Ho sempre detto che i due registi che meritano di essere studiati son Charlie Chaplin e Orson Welles che rappresentano i due approcci più diversi di regia. Charlie Chaplin in modo grezzo e semplice, probabilmente non aveva il minimo interesse per la cinematografia. Si limita a schiaffare l’immagine sullo schermo, e basta: è il contenuto dell’inquadratura che importa. Invece Welles, al proprio meglio, è uno degli stilisti più barocchi nello stile tradizionale del racconto filmico.» (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Tu cosa ne pensi in proposito? Come deve esser il cinema secondo te? Cosa deve privilegiare, le immagini o il racconto, volendo rimanere alle parole di Kubrick?
Io da interprete prediligo il contenuto anche se la forma è incerta. Da pubblico la forma mi interessa tantissimo, quasi fosse garanzia della sostanza. Meglio soffermarsi e approfondire ogni ambito della cinematografia. Non a caso ci sono professionisti che si occupano di ogni singolo reparto, proprio perché ognuno tenti di essere impeccabile.
«Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito». Sergio Leone (1929-1989). Cosa pensi di questa frase detta dal grande maestro Sergio Leone? Cosa deve essere il cinema per chi lo crea e per chi ne gode da spettatore?
Il cinema è narrazione. È racconto di immagini in movimento. È storie. È immedesimazione o presa di distanza. Il cinema è l’idea che ognuno ha della vita e che generosamente offre a chi desidera più vite da percorrere.
Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutato significativamente nella tua vita artistica e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che hai vissuto, che sono state determinanti per le tue scelte professionali e di vita portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni, a chi penseresti? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista, e perché proprio loro?
Il mio amico, mentore e anche pigmalione Manuel Giliberti. Le sue qualità umane, soprattutto, mi hanno tenuta in piedi quando restare in piedi è stato un miraggio sfuocato e l’obiettivo più ambizioso. Le sue braccia, le sue parole, la sua presenza sono state la panacea che salva.
«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero da lettore e da scrittrice…
È una conversazione neanche troppo a senso unico, perché durante la lettura ciò che hai si contamina di nuove idee e consapevolezze, e ciò che si legge, se poi si rilegge una seconda volta, può arricchirsi di significati nuovi alla luce dei nuovi punti vista acquisiti. È come se anche lo scrittore cambiasse idea e ti dicesse il suo nuovo pensiero.
Se dovessi consigliare ai nostri lettori tre film da vedere quali consiglieresti e perché?
“I goonies” perché è il film che da quando ho otto anni mi mette nel desiderio del viaggio e della scoperta. “Cast away” perché l’emozione e il dolore per la perdita di un amico costruito per necessità, ancora di dilania. “Grand Budapest Hotel” perhé l’ironia salva quanto la bellezza.
E tre libri da leggere assolutamente nei prossimi mesi? Quali e perché proprio quelli?
“Lettere dalla terra”, perché Twain va letto. “Doppio sogno” perché Schnitzler va letto. “De profundis” perché da Wilde non si può prescindere
I tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo futuro professionale che puoi raccontarci?
Sono alle prese con un progetto bizzarro: sto scrivendo il primo disco di Vicky Iannacone. Bizzarro non perché in sé il progetto lo sia, ma perché Vicky ha ascoltato le mie canzoni, quelle che io scrivo per me e per i miei spettacoli, e ha scelto di esser lei a cantare le mie parole. Ed io sono fiera, oltre che felice, che tutto questo sia successo. A primavera ne riparleremo. Intanto a dicembre aspettatevi un nostro singolo.
Dove potranno seguirti i nostri lettori?
Se vorranno essere così gentili, ancorché folli, nel seguirmi, potranno fare riferimento alle mie sbadatissime pagine social, al mio sito internet annalisainsarda.com. Poi, se volessero, potrebbero seguirmi anche per il concorso a “Musica contro le mafie” dove partecipo con la canzone “La regina nuda”, scritta da me e cantata da Vicky Iannacone, si può votare fil al 22 novembre 2020. E su questo brano “Antimafia2000” ci ha dedicato la prima pagina della rivista invitando i suoi lettori al voto. Questo il link del concorso:
Premio Musica contro le mafie 11^ Edizione:
https://pr.easypromosapp.com/voteme/899299/636830982?lc=ita
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10224063512766044&id=1546157791
Detto questo, li abbraccio tutti e declino ogni responsabilità.
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?
Chiudo con la stessa frase del saggio più saggio che abbia mai letto che insegna come portare a termine serenamente questa esistenza riaspettando tutte le consegne: “Non prendete mai la vita troppo sul serio, perché tanto non se ne esce vivi”. Grazie per questo spazio e per il vostro ascolto in lettura.
Annalisa Insardà
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Andrea Giostra
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