La cosiddetta Autonomia differenziata prevista dal governo per alcune regioni del Nord comincia a essere degna di attenzione per le conseguenze che potrà avere sia la sua concessione sia la sua negazione. Pur nell’indifferenza dell’opinione pubblica, per l’assenza di un serio e chiaro confronto nel merito tra le forze politiche, qualcosa, anche in modo confuso, si sta muovendo.
Dopo le proteste del Pd siciliano per il provvedimento, nel perdurante silenzio dei vertici nazionali, anche nelle fila della maggioranza di governo
affiorano riserve e preoccupazioni. Alcuni rappresentanti del Movimento Cinque Stelle lamentano l’emarginazione del Parlamento su un tema così rilevante e paventano un declassamento delle regioni meridionali, mentre il presidente della Campania, il democratico De Luca, chiede che gli stessi poteri siano estesi alla sua regione e non è escluso che altre regioni a statuto ordinario avanzino la stessa richiesta.
Tace la Regione siciliana alle prese con la chiusura del suo bilancio e il cui governo prudentemente si tiene lontano dalla questione dal momento che dovrà recarsi a bussare con il cappello in mano alla porta del governo nazionale per avere le risorse necessarie a ripianare il deficit. Il presidente della Regione veneta, il leghista Zaia, dal canto suo avverte che senza la concessione dell’Autonomia il Paese “andrà a pezzi”, mentre il centrodestra è convinto che su questo potrà cadere il governo.
Continua così il graduale scardinamento della Costituzione e delle istruzioni democratiche cui si collegano altri due provvedimenti in discussione, il Referendum propositivo e la riduzione del numero dei parlamentari che porteranno a un ridimensionamento dei poteri e della funzione del Parlamento. La proposta di introdurre il referendum propositivo se fosse integrato con i meccanismi della democrazia rappresentativa aiuterebbe a superare i limiti che questa mostra e ne rafforzerebbe la credibilità. Lo spirito, tuttavia che anima il provvedimento parte dalla convinzione ideologica della superiorità democrazia diretta su quella rappresentativa e non sul loro equilibrio e integrazione.
Tuttavia essa coglie un’esigenza oggettiva poiché il sistema di rappresentanza attuale vive una fase storica di sofferenza che ,non a caso, è comune a
tutte le democrazie occidentali. Da cosa nasce questa crisi, questa sofferenza? Sono cambiati, infatti, i criteri di valutazione della rappresentanza che prima l’elettore affidava, attraverso il voto, al parlamentare. In pratica una delega, perché risolvesse le sue esigenze e dopo i cinque anni di legislatura, era chiamato, sempre attraverso il voto, a rinnovargli la fiducia o a negarla.
Non è che non avesse modo di partecipare alla vita politica. Lo faceva attraverso i canali di allora che erano, i partiti, i comizi e la televisione con le famose tribune politiche, per cui per la prima volta, se non partecipavi ai comizi, l’elettore aveva modo di conoscere programmi, attività e perfino la faccia dei vari leader. In ogni caso è insito nella democrazia parlamentare il ricorso a procedure e a regole e i tempi di valutazione e di decisione sono abbastanza sedimentati nel tempo.
Oggi tutto questo contrasta con i cambiamenti avvenuti. Non vi sono più i comizi, le sezioni e i partiti sono un’altra cosa, sostituiti dai sondaggi, dai talk show, dai social, dalle reti, per cui i tempi di valutazione dell’opinione pubblica sono immediati e i giudizi possono cambiare repentinamente. Non vi è più tempo per la riflessione, per l’approfondimento, per un confronto tra le diverse idee, con le prevedibili conseguenze di una certa sommarietà e superficialità.
A questo punto a che servono più il Parlamento, i partiti? Basta la rete o i referendum su cu cui fare esprimere la volontà generale di rousseauiana memoria e attuare quella “democrazia totalitaria” che il filosofo ginevrino auspicava e per cui non vi era posto né per i partiti, né per le minoranze. Anche la proposta di ridurre il numero dei parlamentari in linea di principio non è sbagliata, anzi parte dall’esigenza di dare una risposta alla crisi della democrazia rappresentativa aiutando il parlamento a snellire i lavori, a selezionare meglio la sua rappresentanza, recuperando efficienza e competenza.
Il pericolo è che anche attraverso questa riforma si voglia, invece, accelerare la crisi della democrazia iniziando a eliminare parte della rappresentanza. Continuare, infatti, a singoli aspetti, di questioni settoriali, in assenza di un disegno complessivo, di un progetto di riforma del sistema, è come pensare di consolidare e ristrutturare la propria casa iniziando non delle fondamenta ma dell’arredamento. Alla fine la casa crollerà.
Il risultato sarà inevitabilmente un gran pasticcio, un fiorire di ricorsi alla corte costituzionale e di denunce. Ecco perché bisogna partire da una riforma generale dello Stato e della nostra Costituzione, salvaguardando il suo patrimonio di valori. Rimane sempre la più bella del mondo ma va adeguata ai profondi cambiamenti della nostra società. Come diceva il grande Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, “la nostra Costituzione non è immobile, non fissa un punto fermo, è una Costituzione che apre la via verso l’avvenire”.
Quando, infatti, una democrazia non funziona, reali sono i pericoli di un ritorno all’indietro, di un restringimento degli spazi di libertà, di un’involuzione autoritaria, di un impoverimento economico e a pagarne il prezzo più alto saranno le aree più deboli come la Sicilia.