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Da Marcel Proust ai Millennial, “Del piacere di leggere” e del “Senso di vivere tra i libri” dei ragazzi di oggi

sabato 23 Novembre 2019

di Andrea Giostra e Ilaria Cerioli

«Manca un’educazione al gusto, il desiderio di scoprire anche indipendentemente dal binario impostato dei programmi scolastici o dal business dei festival letterari … I ragazzi devono essere liberi di scegliere i loro testi, quelli che sono loro più congeniali proprio in quel particolare momento della vita» (Ilaria Cerioli).

Premessa (di Andrea Giostra)

giostra

Il saggio “Del piacere di leggere” di Marcel Proust apparve per la prima volta in Francia il 15 giugno 1905 sulla prestigiosa rivista parigina La Renaissance Latine. Un anno dopo Proust lo utilizzò come prefazione alla sua traduzione di Sesamo e i gigli di John Ruskin, del quale fu un superbo lettore, uno straordinario conoscitore, ed infine, un tenace e consapevole contestatore.

Leggendo questo piccolo saggio – anzi, rileggendolo dopo moltissimi anni. La prima volta lo lessi alla fine degli anni Novanta quando fu pubblicato da Passigli editore – le scene che quasi oniricamente mi appaiono accompagnando la lettura, sono quelle di un adolescente di fine Ottocento posseduto dalla brama di sapere e di conoscenza che cercava di soddisfare e contenere attraverso una lettura frenetica, vorace e ossessiva, sottoposta a rigidissimi vincoli familiari per evitare che quel ragazzo venisse sopraffatto dalle lettura trascurando la vita e le esperienze reali che veniva “costretto” a sperimentare dai suoi severissimi genitori.

Le scene che ho immaginato, traslando il contesto temporale di poco più di 130 anni, per associare quell’adolescente (appiccicato alla lettura dei libri) ai nostri ragazzi Millennial (appiccicati alla lettura dei post dei loro smartphone) può apparire dissacratoria e bizzarra. Sicuramente la maggior parte dei nostri più noti e affermati esperti – critici letterari, insegnati, intellettuali e psicologi dell’età evolutiva – valuteranno questo mio “parallelismo” inopportuno (se vogliamo essere buoni nell’aggettivo che immaginiamo utilizzerebbero dopo aver letto queste poche righe) perché leggere libri non ha nulla a che vedere (nell’immaginario collettivo dei nostri contemporanei adulti) con il “frenetico processo acritico di assorbimento passivo di immagini e notizie” che – sostengono loro, “gli esperti” – vengono subdolamente iniettate nella mente dei nostri Millennial attraverso gli smartphone, i tablet e i pc.

«La mattina, al rientro dal parco, quando tutti erano fuori “a fare una passeggiata”, io scivolavo nella sala da pranzo dove, fino all’ora ancora lontana del pranzo, non sarebbe entrato nessuno […] e dove avrei avuto per compagni rispettosi della lettura, solo i piatti decorati appesi al muro […]» (p.8). «Ero da poco a leggere nella mia camera che già bisognava andare al parco, a un chilometro dal paese. Ma dopo il gioco obbligatorio, cercavo di affrettare la fine della merenda portata nei cesti e distribuita ai ragazzi in riva al fiume, sull’erba, dove il libro era stato posato con la proibizione di prenderlo […] Lasciavo gli altri che ancora facevano merenda giù nel parco, vicino ai cigni e correvo al labirinto e, introvabile, mi sedevo sotto la pergola, appoggiato ai noccioli potati […] dove il silenzio era profondo, il rischio di essere scoperti quasi inesistente, la sicurezza resa più dolce dai richiami lontani di chi mi cercava inutilmente e qualche volta si avvicinava anche, saliva per un tratto il pendio cercando da per tutto e poi se ne tornava indietro senza avermi trovato» (pp.20-21-22).

Così ci narra Marcel Proust del suo amore per i libri, della sua passione per la conoscenza, della sua “dipendenza” adolescenziale dalla lettura che la famiglia cercava di limitare costringendolo, con la rigida disciplina e la severa educazione, al predominio della vita reale più che della vita letteraria (virtuale?).

La prima parte di “Sur le lecture” Proust la dedicata al racconto lucido ed emozionante di questa sua passione adolescenziale. La seconda parte alle riflessioni di adulto maturo e di importante scrittore e intellettuale francese sul senso della lettura, dell’esperienza, del sapere altrui vissuti attraverso i libri.

«Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto […] un ricordo talmente dolce […] che ancora oggi, se ci capitano tra le mani i libri di un tempo, li sfogliamo come fossero gli unici calendari conservati dei giorni passati e ci aspettiamo di vedere, riflessi sulle loro pagine, le case e gli stagni che non esistono più.» (pp. 7-8) «Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto fra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito». (pp. 39-40). «Esistono degli spiriti paragonabili a quei malati cui una sorta di pigrizia o di frivolezza impedisce di scendere spontaneamente nelle regioni profonde di sé stessi, là dove comincia la vera vita dello spirito. Una volta accompagnati fin lì, sono poi sicuramente capaci di scoprirvi e mettere a frutto ricchezze reali, ma senza quell’intervento esterno vivono in superficie, in un perpetuo oblio di sé, in una sorta di passività che li lascia in balia dei piaceri, li abbassa a livello di quelli che turbinano loro intorno e […] finiscono per allontanare da sé qualunque sentimento e ricordo della proprio nobiltà, se non interviene dall’esterno uno stimolo che li reintroduca quasi a forza nella vista dello spirito dove poi subito ritrovano la facoltà di pensare da soli e di creare […] questo processo è proprio della lettura […] quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare.» (pp. 37-39).

Che cosa significano oggi queste parole di Proust se contestualizzate ai giorni nostri, agli adolescenti che noi adulti nati nel Novecento guardiamo disprezzanti “vittime ignare” – sostengono sempre i nostri “esperti” – di una sorta di sub-cultura social – se non di assenza di cultura! – quando li vediamo immergersi con una frenetica coazione a ripetere “nella lettura di post in veloce successione filmica che tendono a prendere il posto della loro vita reale”?

Quale deve essere il confine tra lo sperimentare una vita altrui “vissuta” attraverso la mediazione (dei libri, dei film, dei social, e se vogliamo attraverso l’empatia e l’immedesimazione quale strumento umano di comprensione dell’intimidita e delle emozioni del nostro prossimo) e l’esperienza “vissuta” nella quotidianità che rappresenta il nostro più importante maestro di vita, che ci insegna e ci forgia quali donne e uomini dei nostri tempi?

Queste sono le domande che secondo noi bisognerebbe porsi e alle quali qui non abbiamo risposte!

Sono le domane che oggi più che mai – gli “esperti” di prima e tutti gli educatori che a vario titolo vestono ruoli cruciali e diversi lavorando con i ragazzi e con i Millennial (cosiddetti) – dovrebbero porsi per agire nella loro professione nel rispetto delle nuove generazioni e per favorire il piacere alla lettura che anche loro – i vittimizzati ob torto collo adolescenti di oggi visti dagli adulti – certamente hanno come l’abbiamo avuta noi nel secolo scorso.

Ma fatta questa breve premessa, e proprio per confortare questi dubbi e sostenere con forza le domande che ci siamo posti, Ilaria Cerioli, docente di lettere, intellettuale, scrittrice e nota book blogger, prendendo sputo dal saggio di Proust e da queste brevi riflessioni introduttive, ci indirizza lo sguardo verso un mondo – quello degli adolescenti della sua scuola – che senza ombra di dubbio è illuminante e ci sottopone – per chi alla coerenza delle certezze preferisce il dubbio che potrà portarci a nuove verità – una visione attuale e molto interessante di quei giovani che in fondo – ma noi non avevamo alcun dubbio in merito – non sono poi così sprovveduti e non sono poi così vittime della mercificazione della cultura e della lettura di libri e autori contemporanei “imposti” ossessivamente dal business dei libri e della “cultura”.

Il senso di vivere tra i libri (di Ilaria Cerioli)

Rileggendo le parole di Proust in “Sur le lecture” non posso non pensare alla mia attività di docente in una scuola superiore con indirizzo tecnico. Non insegno a studenti liceali, usciti dalle medie con voti che variano dal 9 al 10, ma figli e figlie di genitori, spesso stranieri, che scelgono il tecnico perché offre un buon posto di lavoro, si studia il giusto e soprattutto si approfondiscono “materie utili” per il futuro. I miei studenti sono quei ragazzi e quelle ragazze definite dai media poco avvezzi alla lettura e sicuramente ben lontani dal mio modo di leggere forsennato e affamato. Eppure a partire dalla scuola elementare si fa tanto per avvicinare i bambini ai libri: si organizzano eventi in collaborazione con le biblioteche locali e le maestre, benemerite, ogni mese permettono lo scambio dei libri sensibilizzando anche le famiglie con attività condivise. Alle scuole secondarie di primo grado poi, le brave docenti di lettere promuovono concorsi, insegnano i riassunti e le recensioni. Insomma non è vero che i giovani oggi non leggono; a mio avviso leggono male. Se noi trascorrevamo i nostri pomeriggi con la Recherche di Proust, perché era obbligatoria in previsione della verifica, i miei studenti più coraggiosi e indipendenti di quanto fossi io alla loro età, si rifiutano di obbedire all’imposizione della lettura. Come dare loro torto? Probabilmente se non avessi avuto lo spauracchio del voto, col cavolo che avrei preferito Swann al mio fidanzato di allora! Pertanto, anziché lamentarci di quanto i nostri studenti siano superficiali, piuttosto iniziamo a chiederci cosa leggono, come leggono e perché leggono.

Premesso che nessuno di loro si avvicina più a un libro per paura di una insufficienza, dove sbagliamo noi insegnanti e genitori?

L’errore condiviso è quello di imporre un modo univoco di affrontare il testo scritto. Ricordo un passo del romanzo del Giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, in cui Micol, costretta a letto per un’influenza, dichiarava di sentire nostalgia dell’infanzia quando trascorreva la convalescenza immersa in romanzi d’avventura. Per la bella Micol, la lettura era quello che sarebbe stato per Bastiano Baldassarre Bucci, il bambino de La Storia Infinita di Michael Ende, semplicemente un modo per dimenticare il presente e accedere, attraverso i romanzi ad un mondo altro. Ecco cosa viene a mancare imponendo i libri: non solo la libertà di scelta, ma l’accesso al sogno. Io devo essere libero di scegliere i miei testi, quelli che mi sono più congeniali proprio in quel particolare momento della vita. Posso anche decidere di smettere di leggere o di leggere tutto d’un fiato, senza sentirmi in colpa se rallento o vado veloce. Non devo sentirmi neppure in colpa se a Proust preferisco John Green o Le corna stanno bene su tutto di Giulia De Lellis.

Nonostante Don Chisciotte abbia perso il senno inseguendo i sogni di gloria maturati dalla lettura forsennata di poemi e romanzi cavallereschi, giuro, leggere non ha mai ucciso nessuno. Forse al più ha creato scompiglio, mosso rivoluzioni e cambiato le carte in tavola, ma sempre per promuovere il nuovo. Ogni libro è un invito a salire sulla zattera dei folli. E mentre l’abate Bordelon in Storie delle fantasie del signor Oufle (1710) è convinto che i romanzi inducono a credere alle superstizioni, “l’esperienza ci insegna che la maggior parte di coloro che hanno la consuetudine di leggere libri d’immaginazione finiscono inevitabilmente con il diventare essi stessi dei visionari”, è anche vero che il libro giusto però permette di sopravvivere alla mediocrità, alla famiglia antipatica, alla sorella pedante e al gruppo di amici petulanti.

Enrico Galiano, che conosce bene l’universo giovanile (è un docente e scrive per i ragazzi) sa bene che se a un adolescente imponi i tuoi libri, questo scaricherà il riassunto e al massimo ti reciterà come un pappagallo la lezioncina: trama, personaggi, ambiente. Perché, infatti, dovrebbe amare cose che abbiamo amato noi venti o trent’anni fa?

Ma poi siamo così sicuri di averle amate tanto da preferirle alla partita con gli amici o alla pomiciata col ragazzo?

Enrico Galiano nei suoi romanzi, infatti, affronta il mondo degli adolescenti, racconta delle loro vite in bilico tra amori, paure, speranze. In Tutta la vita che vuoi (Garzanti 2018) e prima nel suo romanzo di esordio Eppure cadiamo felici (Garzanti 2017) non descrive gente sdraiata davanti a un telefonino, come qualche saccente giornalista racconta nei suoi editoriali, auspicando un ritorno della scuola all’ordine e alla disciplina, ma ragazzi forti e fragili insieme che vivono una realtà scolastica fatta di esperienze, scelte e continue trasformazioni. Mi chiedo se Proust fosse nato e cresciuto oggi sarebbe stato davvero un adolescente dipendente dalla lettura? Oppure anche lui avrebbe indugiato davanti alle spunte blu, cercando di rispondere con l’emoticon più adatto? Sinceramente credo che avrebbe risposto all’invito con un pollicione mentre scaricava felice l’ultimo racconto pubblicato su Wattpad o Ewriters o Sweek.

Quindi dobbiamo davvero evitare lo studio dei classici per promuovere una lettura acritica e solo emotiva? Non è questo il punto, piuttosto occorre creare un orizzonte di attesa, dove il classico diventa specchio del loro presente. Un grande romanzo come i Promessi sposi non è un pezzo da museo, ma merita di essere aperto, sottolineato, stropicciato, amato e anche odiato. Insomma deve essere vissuto. Marcello Fois nel suo bellissimo saggio “Renzo, Lucia e io. Perché per me, I promessi Sposi è un romanzo meraviglioso” (edizioni Add 2018) sottolinea come i grandi classici ci riguardano in prima persona. Si chiamano “classici” proprio perché continuano a suscitare interesse nonostante lo scorrere del tempo. Spesso i protagonisti hanno la stessa età dei nostri studenti (come Romeo e Giulietta, o Renzo e Lucia). Provano gli stessi impulsi, gli stessi problemi, e le stesse passioni dei ragazzi contemporanei. Esiste un filo diretto tra noi e i grandi libri e concordo con Fois quando dice che un autore come Manzoni è coerente con il presente; vive nella nostra quotidianità attraverso i modi di dire e le espressioni che abbiamo appreso fin da bambini. Don Abbondio, Don Rodrigo e Lucia sono infatti molto più attuali di quello che si pensa. Lucia, ad esempio, secondo l’autore del saggio, è uno dei personaggi più rimaneggiato e rielaborati dalla critica. Si è voluta vedere in lei solo la virtù cristiana al fine di imporre un modello femminile assurdo. Quasi una santa laica votata all’astinenza e alla castità. Così si è completamente travisato il suo diniego sia verso Don Rodrigo, sia verso Renzo. Altro che voto di castità: si tratta di fiera autodeterminazione nel difendere il proprio corpo e di sostenere il diritto a concederlo secondo i suoi tempi. Pertanto Lucia oggi deve diventare un modello per le ragazze non per la virtù cristiana, ma come esempio di giovane donna sicura di sé.

Se Fois sostiene l’inevitabilità dei classici, Davide Brullo denuncia nei suoi articoli (Linkiesta.it; pangea.news) quanto ancora la scuola italiana continui ad attribuire letture edificanti, cercando compromessi tra vecchie glorie del passato (I sentieri dei nidi di ragno di Calvino è sempre primo in lista) con prodotti pop, semplici ma eticamente corretti (D’Avenia e Baricco in primis). I docenti hanno un’idea punitiva della lettura e concordo con Brullo quando sostiene che “si impone agli studenti libri utili all’anno che verrà, oppure romanzi di scrittori malauguratamente incontrati a scuola, a far promozione. Manca infatti un’educazione al gusto” … manca il desiderio di scoprire anche indipendentemente dal binario impostato dei programmi o dal business dei festival letterari.

I miei studenti, nonostante qualche manuale orrendo di letteratura che ancora circola nelle nostre scuole, imparano a leggere partendo dai libri che decidono di portarmi autonomamente e, se mi presentano la vita del bomber, va bene uguale. Comunque non leggono mai prima di aver imparato a raccontare: narrano la loro quotidianità. Insegno loro a rendere unica e irripetibile anche l’esperienza più banale come prendere un autobus per venire a scuola. Perché credo che per avvicinarci alle storie altrui si debba partire sempre prima dalla nostra.

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