“Hhhggoppjhedj” ecco cosa leggono i dislessici. Formiche che scorrono all’altezza dell’anima, come un brulichio di farfalle. Tra le lenzuola del possibile, ricamate come le tende delle mamme. Trame incantevoli di fiori e uncinetto che il sole brucia nel silenzio delle case abbandonate.
E lei mi attendeva seduta sulla panchina. E Padre Pio sornione era sopra le nostre teste coi suoi rosari e i mille miracoli da esaudire. Forse la statua non c’era o forse si. Mentre al bar di fronte si sfornava smog e solitudine. Per Zeus Teresa che a raccontarlo oggi il dolore è sempre uguale. Rimani stretta dalla tua camicia da notte a fiori. In quale stanza eri costretta a vivere quando ti accarezzavo i capelli per strapparli via? Io e miei venti anni non eravamo pronti per farlo. Eppure amavo i tuoi occhi da maestra. E poi andavo via, in silenzio, e arrivava mio fratello a stringerti in un abbraccio diverso. Nei pigiami con le nuvole che non sapevi più indossare. Sei sempre stata bella come le zie che muoiono giovani. Che la tua battaglia è stata silenziosa e solitaria come gli amori inesplosi.
Quelli che arrivano e che vorresti mandare via a calci nel culo perché non erano previsti. Quelli che irrompono maledetti e non sai farci nulla. Che scorrono tra le vie nascoste della città, come i vasi sanguigni che alimentano il male e non lo sai, che ti piombano addosso e non puoi lascarli andare. Vorresti, ma ti si appiccicano come gli odori delle strade attraversate e da attraversare. Come la saliva stantia dopo la rabbia del dialogo, dietro le cuspidi della Cattedrale tra le sciarpe a pois e le gonne di seta, con le colombe che ti cagano addosso.
E c’era il Cassaro da attraversare, energico, bellissimo. E le chiese barocche da scansare, le birre sottratte all’ombra del tramonto, mentre si moriva di nuovo. Ancora e ancora. I baci negati all’altezza dell’ultima vertebra, quella sul collo, mentre l’attaccatura dei capelli urlava la sua necessità di esserci. E non darmi la buonanotte se poi domani non sarai in grado di darmi il buongiorno. Non te ne andare via se non puoi sussurrarmi il tuo amore che è solo nostro mentre muori da 17 anni. Io non ho alcuna voglia di perderti ancora, né di ritrovarti. Non ho più appetito di te che attraversi il ricordo di questa città in lungo e in largo. Con gli occhi persi e il cuore sospeso. Smagrita tra le nebbie del possibile. Non vediamoci più se è così doloroso. Chiudila quella finestra. Lasciami andare.
Fuori piove e c’è il tempo arancione dell’autunno. Tra poco i cieli plumbei verranno a tenerci compagnia in questa sosta delicata che non potrà essere lo slancio per nessun viaggio. Ed io continuerò ad attraversare i tuoi sorrisi immobili, ad incespicare stanca tra questi ciottoli disordinati. E non avremo i ritmi degli abbracci. Non potremo narrare l’amore negato ogni volta che si presenterà con la sua necessaria banalità. Che se ci pensiamo bene tutto può assumere contorni sfumati, deboli, fragili come le tante storie che si susseguono uno accanto all’altra e uno dopo l’altra. Ergo quando soffro uso il pensiero. Mi andava di dirtelo Teresa, per dirlo ancora a me, sapendo che la ragione legge le emozioni come se fosse un delizioso dislessico “Jgfftsgvbopeiiug”.