Nel meridione e in Sicilia, alla vigilia dell’Unità d’Italia, si mangiava decisamente meglio rispetto al Nord. Infatti, soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia, la gran parte della popolazione, specialmente quella rurale, fondava il proprio regime alimentare solo ed esclusivamente sulla polenta di mais.
Il monofagismo da mais fu una vera e propria piaga endemica per le campagne della Francia meridionale, dell’Italia settentrionale e della penisola balcanica. Un dramma che durò dalla metà del settecento fino, in certe aree, ai primi decenni del XX secolo. Il mais, infatti, è privo della niacina, una vitamina fondamentale per il corretto sviluppo dell’organismo umano. Basterebbe integrare alla polenta di mais un pò di carne e di verdure fresche al giorno, per raggiungere il fabbisogno minimo quotidiano necessario di vitamina B3, la cui carenza determina lo sviluppo di una malattia terribile, la pellagra. Quest’ultima deturpa il corpo con piaghe purulente, conduce alla pazzia, fino alla morte.
Il monofagismo da mais fu segno e simbolo di una povertà alimentare davvero senza precedenti. Il Sud non conobbe mai fenomeni alimentari così drammatici. Infatti, le condizioni climatiche del meridione d’Italia permettevano la crescita del grano duro, un frumento molto nutriente e facilmente conservabile per lunghi periodi. E il grano duro, a metà ottocento, si coltivava soltanto dalla Sicilia fino alla Campania. Proprio il grano duro fu il segreto del successo della pasta nel meridione. Non è un caso se già nel ‘500 i siciliani venivano chiamati “mangiamaccheroni” e che tale soprannome venne affibbiato nel settecento ai napoletani.
A metà ottocento, in molte aree della Sicilia e dell’Italia meridionale, soprattutto in quelle urbane, mangiare pasta secca era ormai diventata una normalità. I maccheroni, ma anche altri formati di pasta, si acquistavano lungo la strada nei chioschi, si consumavano con le mani e potevano essere accompagnati con un poco di formaggio grattugiato. Il binomio pasta-formaggio, oltre ad essere un cibo riempitivo, garantiva un importante apporto proteico. Lo sposalizio tra la pasta secca e la salsa di pomodoro era già avvenuto intorno agli anni 30 del XIX secolo ma per la sua vera diffusione si dovrà ancora attendere molto tempo.
L’alimentazione di un contadino siciliano, a metà ottocento, era certamente molto più equilibrata rispetto a un contadino lombardo, che conosceva più che altro il monofagismo da mais, che è sempre espressione di profonda povertà alimentare. Un agricoltore siciliano del XIX secolo fondava, infatti, il proprio regime alimentare sui cereali inferiori, come la segale, l’orzo, il farro e la spelta. Grani molto adatti per la preparazione di zuppe, farinate e minestre, vera e propria base dell’alimentazione contadina, e naturalmente per la panificazione di pani scuri. Si consumavano anche molte verdure e tanti ortaggi. E il pollame domestico, come oche e galline, poteva offrire anche carne fresca per i giorni di festa o per le grandi occasioni della vita, come per esempio un matrimonio.
Insomma, il divario Nord-Sud intorno al 1860 era tutt’altro che favorevole per il settentrione. L’alimentazione è una spia molto importante che dice tanto di come le condizioni di vita fossero tutt’altro rosee nella Pianura Padana e di come non fossero certamente così drammatiche per la Sicilia e il Sud continentale, come invece spesso è stato tratteggiato, in modo fuorviante e distorto, da una vulgata nazionale e da un “canone risorgimentale” filo settentrionale.
Tanto allora dovrebbero far riflettere le parole di Antonio Gramsci, secondo cui “il Nord agì come una piovra ai danni del Sud” e che “le politiche economiche attuate dopo l’Unità avessero penalizzato il Sud“. Tesi simili le ritroviamo in Francesco Saverio Nitti e in un grande storico come Gaetano Salvemini. E addirittura un liberale convinto come Luigi Einaudi, in un articolo del 1900, sottolineò che i settentrionali avessero “contribuito qualcosa di meno” per il Sud.