Il 21 marzo, come ogni anno dal 1999, si festeggerà la Giornata mondiale della poesia, così come ha stabilito la XXX Sessione della Conferenza Generale UNESCO.
L’hashtag scelto, in conseguenza del particolare momento sociale che viviamo di ‘allontanamento sociale‘ a seguito della diffusione del Covid-19, è #fermentopoetico.
Non vi è dubbio – così come si è potuto vedere nei giorni scorsi dai flashmob lanciati sul territorio nazionale – che attraverso i canali di comunicazione social la poesia, la “regina” della letteratura, verrà celebrata con svariate iniziative.
Quella istituzionale, diciamo così, è stata lanciata dal Coordinamento nazionale docenti della disciplina dei diritti umani che ha invitato ogni studente a lasciare una propria testimonianza sul profilo social con versi di un poeta, a scelta, che in qualche modo percepiscono più vicino al loro sentire.
Il verso, considerato la più profonda espressione dello spirito umano, ha accompagnato da sempre la vita dell’uomo in tutte le epoche e la nostra Isola, secondo gli studiosi, è stata la culla della poesia italiana.
“(…) Qualunque cosa gli italiani scrivano, viene chiamato siciliano (…)” scriveva Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia (I, XII, 2) citando la Scuola Siciliana, detta anche Scuola poetica siciliana, corrente filosofico-letteraria che si sviluppò in generale nell’Italia meridionale dal 1166 al 1266.
Nei secoli si sono succeduti autori, più o meno produttivi, rimasti nell’oblio o giunti agli altari della gloria, che hanno lasciato segni profondi nella cultura siciliana.
In questa occasione vogliamo approfondire alcuni tra i poeti siciliani del ‘900 che con i loro versi – che vi proporremo – continuano a nutrire gli animi dei lettori.
Lucio Piccolo
Lucio Piccolo di Calanovella (Palermo, 27 ottobre 1901 – Capo d’Orlando, 26 maggio 1969) è stato un poeta, esoterista e musicologo italiano.
Sulla sua personalità ha sempre aleggiato una sorte di mistero nutrito anche dallo stile di vita condotto dall’intera famiglia, confinata nella villa di campagna in contrada Vina – ritenuto luogo frequentato anche dai folletti e perciò magico – sulle colline sovrastanti la cittadina di Capo d’Orlando, nel Messinese.
Ultimogenito di una famiglia nobile – nella quale si contano tre Viceré in Sicilia – cugino dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, può essere considerato, per la sua produzione e per la sua rinomata curiosità verso il visibile e non solo, il poeta più visionario del ‘900.
Diverse furono le raccolte di poesie pubblicate da Piccolo tra cui: 9 liriche (s.d. ma 1954); Canti barocchi e altre liriche (1956); Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (1960, II edizione 1967); Plumelia (1967, II edizione 1979); La seta ed altre poesie inedite e sparse (1984); Il raggio verde e le altre poesie inedite (1993); Canti barocchi e Gioco a nascondere (2001).
La sua lirica, arricchita dalla curiosità e dall’ampia conoscenza non solo di diverse lingue ma di svariate discipline, scientifiche e umanistiche, fu caratterizzata dalla sovrabbondanza di immagini dense e oniriche.
Oscurità e forte simbolismo si rincorrono, a tratti anche freneticamente, in versi che mai attingono al dialettismo regionale o al mondo siciliano.
Forme lessicali rare e una ricca musicalità di versi significano la produzione piccoliana che, a suo modo, si è imposta nella produzione lirica tra gli anni ’50 e ’60.
E come una specie di incantesimo la produzione di Lucio Piccolo è legata tutt’oggi ad una trama familiare mai del tutto limpida che vieta, fino al 2039, la possibilità – tranne ai suoi eredi che al momento pare non abbiano dimostrato questa volontà – di pubblicare le sue opere a beneficio di tutti. Di lui riportiamo la seguente poesia.
Voce umile e perenne
Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.
(tratta da “Il raggio verde e le altre poesie inedite” – 1993)
Gesualdo Bufalino
Scrittore e poeta (Comiso 1920 – Vittoria, Ragusa, 1996), di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, esordì al termine di una lunga carriera di insegnante con il romanzo Diceria dell’untore (1981), grazie all’incoraggiamento di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio.
Tra le raccolte poetiche al 1996 risale l’edizione definitiva, accresciuta dalle Senilia, de L’amaro miele.
A differenza di Piccolo Bufalino attinge a piene mani al panorama, non solo geografico, offerto dalla Sicilia, riproponendone suggestioni ed emozioni in forma aulica e ricercata, definita “anticheggiante“.
Tra le poesie giovanili ricordiamo, ad esempio, quella dedicata all’Ippari, il fiume della Sicilia sud-orientale.
Di una cultura sconfinata – imparò da solo il francese durante la degenza in sanatorio – amava ripetere che “la cura è una sola: libri libri libri“.
Quale messaggio più efficace in questo momento storico, ci viene da pensare.
Nel 2010 Franco Battiato, amico di Bufalino, ha realizzato il docufilm “Auguri don Gesualdo“, utilizzando materiale e interviste inedite, con l’intento di “riuscire a far vedere la sua grazia. Riuscire a raccontare l’uomo più che lo scrittore, grandissimo, che tutti già conoscono“. Di lui riportiamo la seguente poesia.
Compieta
La stanchezza del mio cuore non si può dire,
e non ho voce per gridare.
Signore, fammi mare
dentro la mente, scioglimi i ginocchi.
Si divulga il mio viso nel vento,
come la polvere non ho padrone.
Posassi sul Tuo petto macilento
il mio capo, per dormire.
Nei miei occhi si sporca una rosa,
come un albero cadrò.
O Signore, concedimi sull’erba
una morte di cosa.
Vincenzo Consolo
Amico di Bufalino – almeno fino ad un certo punto – un altro poeta simbolo della nostra Isola fu Vincenzo Consolo, per quanto la sua produzione sia stata esigua in materia di versi.
In vita negò sempre di aver scritto liriche, per lui la più ardua forma d’arte, mosso anche da una profonda autocritica. Solo quattro anni dopo la sua morte la moglie Caterina pubblicò “4 liriche” inedite (in 77 copie numerate), brevi ma indimenticabili, sintesi perfetta di tutta la sua produzione, che si affiancano alla raccolta “Accordi“.Di lui riportiamo questa lirica.
E ogni giorno
reca qualche dono,
povere cose
ricche di memoria.
Scorre impassibile
l’Ippari profondo,
rode le celle antiche
di Pantalica.
S’aggruma l’ambra
sull’elitre annegate,
verdisce il muschio
sulla pietra
che frange la corrente.
Ignazio Buttitta
Vogliamo chiudere questa breve rassegna di poeti siciliani con Ignazio Buttitta (Bagheria, 19 settembre 1899 – Bagheria, 5 aprile 1997) tra i più conosciuti che si siano espressi, con indiscussa efficacia, in dialetto.
Buttitta considerava la letteratura la “visione che si fa ragione“, strumento quindi per raccontare la realtà, sociale e storica. Scrisse di lotte contadine, delle due Guerre, di anti-antifascismo, della lotta contro la mafia e di politica, traducendo in versi la storia sociale di un intero secolo.
La sua poesia è forse la meno intimista rispetto a quella dei colleghi che abbiamo citato ma di sicuro ha il pregio di coinvolgere tutti i ceti sociali, anche quelli culturalmente distanti dalla sua fruizione, diffondendo con semplicità una riflessione facilmente comprensibile e condivisibile. Tutta la sua vasta produzione oggi è custodita nella Fondazione a lui intitolata e fortemente voluta dal figlio Antonino. Di Ignazio Buttitta ricordiamo questa poesia dedicata a Pier Paolo Pasolini.
La peddi nova
Certu era bellu scriviri
comu un briacu
a la taverna a bìviri,
che guarda la buttigghia
e ci parra,
e ridi a lu bicchieri
chi svacanta
e torna a ghinchiri arreri.
Scriviri mpimatu d’amuri:
la gravidanza, li dogghi, lu partu,
lu tempu esattu
pi fari un figghiu
e nasciri na puisia.
Certu era bellu;
ma ora sugnu spiritusatu,
lazzariatu di dintra,
e scrivu
cu lu duluri chi mi torci
comu un sarmentu a lu furnu;
com’unu assicuratu di li spirdi
muzzicatu di li lapi.
La storia di st’anni fucusi
ha zappatu cu l’ugna
dintra di mia,
e restu scantatu a taliari
l’omisi tutti
mpinnuliati a nu filu,
a un distinu sulu,
dintra na varca di pagghia c’affunna.
Sentu ca la me vuci
chi li chiama di luntanu
avi limmiti e cunfini d’amuri
e mori nni l’aria.
Voggh’essiri un cocciu di rina
nni la rina di la praja;
un pisci nni la riti cu l’autri
mpignati a sfunnari
la gaggia chi li chiuj.
Mi vogghiu svacantari, scurciari,
farimi la peddi nova
comu li scursuna.