Un fallimento annunciato e che non stupisce. La parabola discendente dei referendum abrogativi incarna perfettamente la crisi della democrazia. Disinteresse, scarsa volontà di partecipare alla cosa pubblica e fiducia sempre più fioca verso le istituzioni. Sono solo alcuni elementi che riassumono e spiegano il perché gli italiani non sembrano interessanti e appaiono sempre più distanti da appuntamenti così importanti. Cinque quesiti, temi come il lavoro e la cittadinanza, parti integranti della quotidianità e che coinvolgo tutti gli italiani, non sono bastati per convincere gli aventi diritto al voto a recarsi alle urne.
Il referendum in Sicilia: dati e commenti
I dati sono negativi in tutta la Penisola. Con il 23,11% la Sicilia va sotto la media nazionale di ben 7 punti, segnando uno dei peggiori risultati del Paese, sopra solo al Trentino Alto Adige (22,70%).
Centesimo in più o centesimo in meno, i numeri dei cinque quesiti dipingono un quadro pressoché uguale. La prima provincia dell’Isola è Enna, l’unica oltre il 25%. Poco più indietro Palermo, al 24,9%. Seguono: Catania (24,03%), Messina (23,26%), Ragusa (23,11%), Siracusa (22,53%) e Trapani (20,3%). Non raggiungono nemmeno la soglia del 20% Caltanissetta (19,86%) e Agrigento. Alla città Capitale della Cultura va dunque la maglia nera con il 19,6%.
ilSicilia.it ha raggiunto i due fronti opposti per commentare i risultati degli esiti di questo referendum abrogativo.

Il deputato siciliano di Fratelli d’Italia Carolina Varchi ha sottolineato come “la sinistra a trazione Cgil colleziona un’altra memorabile sconfitta alle urne. Gli italiani hanno bocciato il referendum, hanno bocciato il tentativo strumentale di indebolire il Governo Meloni che ne esce ancora più forte“.

Il deputato dem e segretario regionale del Partito Democratico Anthony Barbagallo ha invece sostenuto: “Il referendum, nonostante l’esito negativo determinato dal forte astensionismo, deve accendere una fiammella di speranza anche in Sicilia. Nonostante tutto, il numero di siciliane e siciliani che si sono presentati ai seggi tra domenica e oggi supera o comunque equipara quello degli elettori che hanno sostenuto Meloni al Senato e votato Schifani alle ultime elezioni regionali. Il compito del Pd e del centrosinistra e rassicurare questo zoccolo duro di elettorato che già fu sufficiente al centrodestra a vincere le elezioni. Bisogna proseguire per consolidarlo lavorando su queste politiche e sul perimetro delle battaglie che hanno animato il referendum“.
La parabola discendete dei referendum abrogativi
L’arrivo dell’estate, il caldo afoso e il relax delle vacanze a mare non sono di certo scuse e cause sufficienti per spiegare il flop di quest’ultima tornata. Lo storico parla chiaro: la crisi dei referendum abrogativi è inarrestabile. Un piaga, quella dell’astensionismo, iniziata nel 1997, ma che aveva lanciato già i primi segnali di allarme nel ’95, quando la soglia del 50% fu superata di pochissimo. Quando appena due anni prima, nel ’93, il quorum aveva oltrepassato 75%. Tempi lontani dunque quelli in cui le mobilitazioni per il divorzio avevano spinto ai seggi l’87,7% della popolazione.
In Italia, ad oggi, sono stati 78 i referendum abrogativi proposti. Nel 44% delle volte la maggioranza non è stata raggiunta, solo il 55% delle volte il quorum della metà più uno è stato varcato, corrispondenti 39 quesiti. Nel 60%, 23 quesiti, ha trionfato il “sì”. Quello del 2025, seppur deludente come risultato, non è stato il peggiore. Il punto più basso è stato raggiunto nel 2022, quando a prendere parte alle elezioni era stato il 20,5%. In quel caso il tema era la giustizia.
Qualche nota positiva per l’ultimo referendum c’è. L’aumento del 61%, rispetto alle europee del 2024, dei fuorisede che hanno richiesto il voto è certamente un segnale ottimista. Ma non basta. Il futuro dei referendum in Italia non è per nulla roseo e oggi più che mai richiede delle riflessioni. Non solo sulla partecipazione e il valore assunto oggi dalla democrazia, ma anche sui costi.
Quanto è costato questo referendum?
Il vero problema: il referendum abrogativo funziona ancora?
Soldi sprecati? Piuttosto l’attenzione dovrebbe essere spostata su un altro focus più importante: come ottimizzare queste spese senza renderle vane? La strada da percorrere in realtà è solo una: far comprendere e far acquisire nuovamente fiducia agli italiani nei valori della democrazia.
La spinta di molti partiti per l’astensionismo ha inciso e non poco. Un messaggio non proprio felice rivolto agli elettori, invitati così a non esercitare il proprio diritto di voto, proprio con lo scopo di impedire al referendum di raggiungere il quorum. Rispetto ai precedenti referendum, però, non si può parlare di voto di protesta o di delegittimazione verso il governo nazionale. I promotori dei quesiti che hanno animato il 2025 sono stati Cgil e +Europa, supportati da tutto il resto dell’opposizione. Resta dunque da chiedersi qual è oggi il reale appeal di queste forze. Parti sociali e politiche che da sempre si sono distinte per il loro spirito di iniziativa referendaria e di democrazia partecipata, ma che oggi hanno perso la loro luce e la loro capacità di imprimere, riuscendo a coinvolgere e convincere sempre meno italiani, attualmente più disinteressati che mai. Per comprendere meglio: la galassia Radicale ha promosso 110 referendum, dei quali solo 47 sono stati effettivamente sottoposti al voto. Un numero che rappresenta più della metà dei referendum abrogativi svolti nel corso dei decenni (78).
In Italia esistono quattro tipi di referendum: consultivo, confermativo, abrogativo e propositivo. A regolare quello abrogativo è l’articolo 75 della Costituzione. Per farne richiesta sono necessari 500mila elettori o cinque consigli regionali. Alcune materie, come leggi tributarie e di bilancio o l’autorizzazione a ratificare tratti di internazionali, non possono essere sottoposte a referendum. A pronunciarsi sulla sua ammissibilità è la Corte Costituzionale.
Questa formula funziona ancora o bisognerebbe ridisegnarla e ricucirla sulle esigenze della società attuale?
E qualcosa è iniziato a muoversi già subito dopo i primi risultati.
“Forse bisogna cambiare la legge sui referendum, servono probabilmente più firme, anche perché abbiamo speso tantissimi soldi per esempio per portare centinaia di migliaia, milioni di schede per gli italiani all’estero che sono tornate bianche“. Sono queste le prime dichiarazioni del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Se da un lato c’è chi propone di aumentare il numero di firme, dall’altro è partita la macchina per abolire il quorum. Già lo scorso 5 giugno è stata depositata dal comitato “Basta quorum!”, formato da cittadini, alla Corte di Cassazione una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per abolire il quorum dai referendum abrogativi previsti dall’articolo 75 della Costituzione. La proposta è stata pubblicata sulla piattaforma di raccolta firme del ministero di Giustizia.