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Il linguaggio mafioso come strumento di identificazione di gruppo

giovedì 30 Luglio 2020

L’essere umano è biologicamente determinato ad apprendere dal proprio nucleo antropologico di appartenenza che gli garantisce uno spazio neotenico. In esso, acquisisce gli strumenti per potere abitare il mondo. Lo spazio fetale (neotenico) del mafioso è totalmente occupato. Il mafioso è definibile come una non-persona. Con il termine “mafia” si fa, ormai, riferimento anche al razzismo che si è diffuso in Italia. Chi vive questa cultura è totalmente identificato con la famiglia e con l’insieme delle acquisizioni, credenze, abitudini proprie dell’ambiente di riferimento. Il mafioso non è un “Io”, è un “Noi”. Lui è la mafia. Di fatto non ha identità. A questo punto pensa che anche l’altro non sia una persona: se la schiaccia non gli importa, non è percepito come un essere umano ma come un insetto (G. Lo Verso).

Il linguaggio, all’interno di un’organizzazione criminale, assume determinate caratteristiche. Grazie a una ricerca condotta da G. Lo Verso, G. Mannino, S. Giunta, S. Buccafusca, G. Cannizzaro sulla psicologia del fenomeno mafioso e all’ascolto delle voci dei collaboratori di giustizia, provenienti dall’interno dell’organizzazione, si è giunti alla conclusione che l’attività di Cosa Nostra si intreccia in modo costante con le pratiche linguistiche. È, infatti, da considerare errato il luogo comune secondo cui, per i mafiosi, ‘la migliore parola è quella che non si dice’, perché anche il silenzio è comunicazione e ‘anche il non detto dice’.
Le persone, dalla nascita, si intrecciano in una rete di comunicazioni che si sviluppano a partire da una matrice che è costituita dal gruppo, foulkesianamente parlando, all’interno del quale hanno luogo tutti i processi mentali, personali e transpersonali. Uscire dagli schemi (script) acquisiti è un’utopia (ma non è impossibile se si sradica l’albero, lo si impianta altrove e si nutre di empatia). Gli elementi verbali e non di cui sono dotate queste persone in maniera ‘naturale’ rende difficile considerarli davvero ‘dal di fuori’. Le storie che li hanno spinti a far parte della mafia sono diverse, tuttavia ciò che li lega è proprio la condivisione di una matrice di pensiero rigida. I loro schemi mentali, le loro cornici culturali sorreggono un intero sistema di comunicazione che costituisce uno ‘strumento di governo’ e che genera e coltiva lo psichismo mafioso e la trasmissione valoriale che perpetua nelle generazioni questo stile mentale.
I mafiosi, in qualche modo, sono maestri di semiotica e semantica. La sensazione è che questi uomini non si rifacciano a un codice ben preciso ma piuttosto a regole espressive che incorniciano e fanno da veicolo di un linguaggio implicito, ricco di simbolismi e caratterizzato da una forte obliquità semantica. Utilizzano termini non diretti e non trasparenti, lasciano intravedere significati, senza mai mostrarli chiaramente. Il linguaggio diviene metaforico, fortemente allusivo e mai esplicito in quanto, per essi, non è un semplice mezzo per trasferire informazioni ma qualcosa che va oltre sino a influenzare fortemente la costituzione dell’identità, usandolo come strumento di identificazione di gruppo. È anche attraverso le loro scelte linguistiche che il loro “Io” diventa un “Noi” con cui viene riconosciuto all’interno dell’organizzazione come membro.
Si parla di linguaggio mafioso ogni qual volta sentiamo qualcuno parlare per allusioni o formulare minacce in modo larvato o implicito. Il linguaggio dei mafiosi (o della mafia) si riferisce più alle parole che descrivono la struttura interna dell’organizzazione: Cosa Nostra, commissione, mandamento, capodecina e altre come uomo d’onore che non è necessario accompagnare da spiegazione perché sono entrate, purtroppo, a pieno titolo, nel gergo comune (G. Paternostro).
Certo, come afferma Boas, le parole di una lingua sono adattate all’ambiente in cui vengono usate. Basti pensare alle varie parole esistenti in ogni Paese per esprimere un medesimo fenomeno. Una parola usata solo per il significato letterale può dare luogo a svariati fraintendimenti proprio perché non si conosce bene l’uso culturalmente condiviso da quella determinata cultura. Secondo la prospettiva pragmatico-culturale di Bruner, apprendere una lingua significa anche apprendere i modelli culturali collegati alla lingua in oggetto. Un individuo, per interagire efficacemente ed essere parte integrante di un sistema sociale, deve possedere non solo un’ottima proprietà linguistica ma anche una buona padronanza socio-culturale della cultura di appartenenza (G. Serragiotto).

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