Il fenomeno “Mare fuori” ha letteralmente invaso i social. Giunta ormai alla quarta stagione, la serie tv ha conquistato praticamente tutti, grazie ai suoi giovani interpreti e ai temi caldi e più attuali che mai. Chiunque ne parla e pensa di conoscere il mondo degli Ipm. Ma è davvero così? Il carcere minorile ricostruito sul set napoletano rispecchia la realtà? L’ennesima finzione televisiva ha colpito la fantasia degli spettatori, dipingendo una visione decisamente più rosea della vita condotta dai giovani detenuti all’interno delle strutture.
Nei giorni scorsi l’associazione Antigone ha presentato il settimo rapporto sulla giustizia minorile. I dati sono decisamente allarmanti: nei primi mesi del 2024 sono già 500 i minori detenuti, un numero record nell’ultimo decennio. Gli ingressi negli istituti penitenziari sono in netto aumento, dagli 835 del 2021 ai 1.143 nel 2023, la cifra più alta, almeno, negli ultimi quindici anni. Cifre che scandiscono un ritmo in continua crescita, dal quale, ovviamente, la Sicilia non è esclusa.
La situazione oggi viene portata a galla da statistiche a portata di mano, ma chi da anni conosce questi realtà sa benissimo come nel tempo si sia evoluta. Il garante per i detenuti di Palermo Pino Apprendi ha infatti evidenziato come i numeri siano “saliti in tutta Italia e anche a Palermo e si avverte da quando è stato emanato il famigerato decreto Caivano“. La norma è stata criticata a più riprese per alcuni dei suoi punti. Tra questi l’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità, come quelli legati per esempio alle sostanze stupefacenti. La linea ha infatti determinato un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare. Non a caso erano 340 nel gennaio 2024, mentre 243 appena un anno prima. Emerge dunque un aspetto importate e fuorviante. L’incremento dei detenuti all’interno degli Ipm non coincide con l’aumento dei reati commessi. Le due variabili quindi non sono direttamente proporzionabili.
E’ evidente come la bussola si sia persa. La strada perseguita non è più quella rieducazione ma della punizione. “Si pensa di risolvere il problema chiudendo i giovani in questi centri, ideati come carceri e non come strutture per rieducare e favorire al reinserimento all’interno della società. Dovrebbero, invece, studiare o lavorare ma – aggiunge Apprendi – si ritrovano nelle mani dei grossi spacciatori e ad andare in carcere non sono quest’ultimi ma i ragazzini di 14-15 anni. Si tratta quasi sempre di ragazzi che hanno subito violenze, sotto effetto di alcool o droghe. La società non comprende che riuscire a recuperare uno di loro è un bene per tutti. Invece di svuotare questi luoghi si aggiungono quelli che hanno commesso reati minori e così oltre il 70% è in attesa di giudizio. Una condizione del genere non mette un ragazzino di 15 anni nel condizioni di salvarsi“.
Un aggravante è dettato dal diffuso disagio psichico o psichiatrico. “La sanità – dichiara Apprendi – non riesce a dare risposte concrete alle necessità di queste persone, sia per quanto riguarda gli adulti sia i minori, dove il tema è ancora più importante. Non è all’altezza per mancanza di personale, tante persone si impegnano ogni giorno ma rispetto alla realtà sono insufficienti“.
Dunque, quel “mare fuori”, quella speranza, quella seconda possibilità o chance esiste? Non è così semplice. Come sottolineato sempre da Antigone, sono pochi gli interventi rivolti a servizi per la tossicodipendenza ed educazione nelle scuole. “Sul territorio esistono delle cooperative che offrono opportunità interessanti. Laddove questi esperimenti sono stati fatti hanno funzionato. La dimostrazione è questa: se dai un’opportunità di lavoro e di reinserimento il ragazzo lo recuperi, ma così non è se si passa dal carcere minorile, in attesa di giudizio alla pena definitiva, e poi in un carcere per adulti senza un’attività trattamentale adeguata. Non è solo una questione di volontà personale ma bisogna dare anche degli strumenti giusti“.