La rubrica «Professionisti Geniali» arrivata alla 4^ puntata delle 10 previste, oggi incontra Salvatore Requirez, medico e manager sanitario della più grande azienda ospedaliera della Sicilia che da anni coltiva la sua grande passione per la Famiglia Florio, per la Targa Florio e per le auto d’epoca da corsa. Con questa piccola produzione, «Professionisti Geniali», abbiamo cercato di individuare 10 personalità che si distinguono nella loro professione per le grandi capacità, competenza e talento, ma che al contempo coltivano “passioni” e “genialità” delle quali parlare con noi. Buona lettura e buon divertimento a tutti i lettori…
Roberta & Andrea
L’INTERVISTA
Ciao Salvatore, benvenuto a “Professionisti Geniali” e grazie per aver accettato il nostro invito. Nella vita professionale sei un “Manager e medico dirigente sanitario della più grande azienda ospedaliera della Sicilia”. Ci racconti del tuo lavoro?
Certo e con grande piacere. Intanto porgo i miei saluti a tutti coloro che ci leggono. Del mio lavoro dico l’essenziale: sono direttore sanitario dell’Azienda di Rilievo Nazionale Civico di Palermo che comprende anche l’unico ospedale interamente pediatrico della regione. Sono alla mia settima direzione di azienda sanitaria negli ultimi vent’anni, una esperienza che mi ha portato a conoscere e curare aspetti sanitari e gestionali da un angolo all’altro dell’isola. Nei precedenti dieci sono stato ispettore sanitario (ex medico provinciale) all’Assessorato alla Salute. Il mio lavoro, oggi, consiste nella gestione delle problematiche organizzative di un grosso Ospedale. Mi occupo, soprattutto delle linee di indirizzo esecutivo, oltre che, come prevede la legge, di esprimere parere sulle decisioni adottate con delibera e formulare proposte migliorative e programmazione mirata. L’Ospedale Civico ha ben 55 strutture complesse (reparti) e relativi direttori da coordinare tra area di emergenza, area chirurgica, area oncologica, area dei servizi e laboratori e area della Medicina oltre a quella, delicatissima, del Materno Infantile. Trovo molto interessante il quotidiano confronto con i vari primari che sono mossi dalla stessa, unanime, tensione: riuscire a far sempre meglio il loro lavoro al servizio dei pazienti. Vivo come un mio obbligo professionale cercare di aiutarli mettendo a disposizione la mia esperienza ancorché in un momento storico fortemente caratterizzato da limitazioni di risorse quale quello con cui ci misuriamo da anni.
Come li hai vissuti questi mesi da Pandemia da Covid-19 da un punto di vista umano e professionale?
Personalmente posso dire freddamente preoccupato avendo consapevole percezione del rischio corso dalla popolazione. Avere contatti quotidiani con operatori sanitari porta ad allargare la soglia di attenzione, ad innalzare il livello di guardia rispetto alla possibile trasmissione infettiva di cui tutti possiamo essere inconsapevoli vettori. Professionalmente, invece, si è trattato di un super lavoro condotto con estrema attenzione e grandissima collaborazione da parte dell’unità di crisi che abbiamo costituito in azienda. Ci ha impegnato a fondo tutti: medici, operatori professionali, e tecnici. E si sono impegnati tutti. Anche ultra petita venendo al lavoro con me il sabato e la domenica per mesi. Proprio una domenica abbiamo convocato presso la nostra azienda una conferenza tra tutti i direttori della provincia: era il tempo in cui le mascherine non arrivavano… Abbiamo riconvertito reparti lavorando nottetempo, soprattutto nelle aree di rianimazione, con grande abnegazione da parte del personale che ha conseguito risultati encomiabili. Rimettere in vita i pazienti che ci sono giunti in precarie condizioni da Bergamo, servire i nostri degenti, a diverse decine, e soprattutto proteggere dal virus tutti gli altri ricoverati (centinaia) e il personale che li assiste (migliaia). Operazione non facile e che richiede un alto tasso di responsabilità operativa e direttiva. Se siamo usciti dalla fase critica dell’epidemia Covid lo dobbiamo soprattutto all’impegno massimo profuso da medici e operatori sanitari. Dobbiamo essere orgogliosi di queste persone.
Chi è invece Salvatore Requirez nella quotidianità, nella vita al di fuori del lavoro?
Un uomo di 62 anni, con due figli di 31 e 29 anni, che, come tutti, ama coltivare le proprie passioni: leggere, fare sport, vedere buoni film, frequentare gli amici, quando possibile viaggiare, passeggiare nel centro storico, seguire i raduni e le gare della specialità che mi appassiona e … scrivere.
Come ben sai Noi siamo alla ricerca di “Professionisti Geniali” e Tu lo sei al 100%. Sei un appassionato e grande conoscitore della storia della Targa Florio, della Famiglia Florio, del Giro Automobilistico di Sicilia e di auto d’epoca da corsa. Ci racconti come sono nate queste tue passioni e come le hai coltivate negli anni?
Tutto nasce dalla passione per l’automobilismo concepita in epoca pre-adolescenziale. Avevo 10 anni e la morte di Lorenzo Bandini bruciato al G.P. di Montecarlo nel 1967 mi colpì. Perché un uomo, pur di primeggiare nello sport che ama, non ha alcun timore di sfidare la morte? Ancor prima di diventare professionisti e quindi correre in cambio di milioni, quali dovevano essere le sensazioni di chi va a 300 km/h? Intuii subito che oltre allo spettacolo esterno quello sport ne assicurava a chi lo pratica uno interno fatto di emozioni, scariche adrenaliniche, senso di sfida delle leggi fisiche, sensazioni di profondo appagamento nella perenne lotta contro il cronometro e via discorrendo… Cominciai, anno dopo anno, ad assistere alla Targa Florio e ad altre corse siciliane (allora ce n’erano tante …). Approfondii, prima per curiosità, la storia di questa famiglia cominciando a raccogliere libri e riviste che ancora oggi tengo cari. Una decina di anni dopo sostenni l’esame di maturità classica all’Umberto I. Portavo all’orale le materie di Italiano e Storia. Cominciammo con quest’ultima e il presidente della commissione mi disse: parliamo della Questione Meridionale! Ma non degli aspetti politici o del brigantaggio, come hanno già fatto i tuoi compagni, parliamo degli aspetti economici dove e quando si scava questo divario tra Nord e Sud? Ci pensai un attimo e partii. Cinque minuti dopo mi giocai la carta dei Florio e delle loro imprese. Il presidente, che fino a quel momento era stato a testa china sul giornale, inforcò gli occhiali e mi disse fissandomi negli occhi: Beh… in effetti, però, l’unica industria del sud che reggeva il paragone con quelle del nord era la Cirio… Io restai per tre secondi interdetto: quanto poteva già allora il potere della pubblicità in televisione? Ancora oggi ringrazio il cielo di aver distolto, imbarazzato, lo sguardo dai suoi occhi e di aver incrociato quelli del membro interno in commissione che mi invitava a smorzare ogni polemica: non è mai igienico entrare in contrasto, apertis verbis, con chi, in sede di esame ti deve giudicare… Ma soprattutto ringrazio il cielo, avendo cominciato a snocciolare le imprese guidate dai Florio in tutta Italia, compresa l’unica compagnia della marina mercantile allora operante in regime di monopolio, la Navigazione Generale Italiana, di non aver detto a chiare lettere che la ottocentesca Cirio era un’azienda piemontese … L’esame andò bene ma una convinzione si radicò in me: bisognava mettere ordine nelle fuorvianti informazioni che circolavano intorno ai Florio. Eravamo nel 1976. Da allora presi a raccogliere e a trascrivere ogni riferimento bibliografico riportando, in extenso, il relativo testo. Oggi credo di possedere uno dei data base documentativi più ricchi fatto di oltre 6000 pagine prima dattiloscritte e poi digitalizzate. Un lavoro che mi è tornato utilissimo negli anni e che mi ha permesso di scrivere sui Florio con accuratezza di riscontro e anche in forma diaristica dove la precisione di data ha una importanza fondamentale.
Sulla famiglia Florio e sulla Targa Florio hai pubblicato diversi libri e saggi. Qual è stata la tua prima pubblicazione, come è nata, quali le ricerche e gli studi che hai fatto?
La mia prima pubblicazione non riguarda i Florio né la Targa Florio, ma rappresenta bene, credo, il mio approccio con il mondo della scrittura. Io faccio un altro mestiere. Dedico allo scrivere ritagli del tempo libero, quelli sottratti alla famiglia e ad altre cose che tutti fanno per svago. Quando scrivo io voglio divertirmi. Tratto, quindi, di cose che mi appassionano e solo di quelle. Si tratta di ambiti che lasciano ampi spazi all’approfondimento, alla ricerca, al confronto, alla metodologia competente, all’estro. Nel caso del mio primo libro, Le Ville di Palermo, c’è tutto questo. Avevo raccolto negli anni di Università circa un migliaio di foto relative agli insediamenti suburbani nobiliari dispersi nella campagna palermitana. Sono più di duecento in diverso stato di conservazione. Andarli a scoprire uno per uno è stato un lavoro lungo ma piacevolissimo. Documentarsi ancora di più. Ne è venuta fuori una revisione trasversale fatta sulle pubblicazioni già esistenti e sulle, molte, notizie assunte direttamente dei proprietari che spesso mi fornivano anche documenti originali o foto antiche interessanti il singolo presidio. Di fronte a tutto quel materiale, una dozzina di anni dopo, ho iniziato un lavoro di sistemazione per itinerari dividendo a spicchi la campagna che corona Palermo. La mia idea piacque all’editore e così nacque il libro.
Nel 2012 hai pubblicato il romanzo “Il leone di Palermo” che racconta la storia di un affasciante siciliano della belle époque palermitana. Una storia che ripercorre i successi mondami e commerciali della famiglia Florio tra ricchezze e grandi eventi popolari quali per esempio la Targa Florio e il Giro Automobilistico di Sicilia. Ci racconti come nasce questo romanzo e quale il lettore che hai immaginato mentre lo scrivevi?
Ho immaginato un lettore che desiderasse di essere seriamente informato su come erano andati realmente i fatti. Uno dei tanti, tantissimi, siciliani e no, che da sempre si fanno la stessa domanda: come è mai potuta finire la ricchezza dei Florio? Ho espresso il mio punto di vista, romanzato, sui fatti certi, in assoluta coerenza con quanto avevo scritto prima sul tema e in armonia con la più accreditata saggistica di settore. Ma non solo. Io non ho usato in quel libro il nome dei Florio, anche se la storia narrata rispecchia, giorno dopo giorno, la loro basandomi su atti e documenti. Perché il mio messaggio vuole essere diverso. Per far conoscere la storia dei Florio bastano i saggi. Io voglio dire qualcos’altro. Non importa che si chiamassero X o Y. Importa ricordare che c’è stato un tempo in cui Palermo è stato il centro del mondo. Un tempo in cui i siciliani sono stati capaci di cose grandi.
I critici smaliziati e fuori dal coro dicono che “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci, edito da Editrice Nord, che sta avendo un grande successo di vendite, non sia altro che un “riadattamento”, una sorta di “Remake letterario” – e il titolo sembra dichiararlo esplicitamente! – del tuo romanzo “Il leone di Palermo” e degli altri tuoi libri quali per esempio la “Storia dei Florio” (2012). Tu che ne pensi in proposito?
In ordine ai contenuti del vostro quesito devo premettere che non sono un critico. Non l’ho mai fatto e non sarebbe etico farlo in questo caso che, peraltro, non è il primo caso di opere che si ispirano a quanto da me scritto in passato. Ho letto il libro della Auci e, pur non essendo io un lettore particolarmente affezionato al genere che nel secolo scorso fece grande Liala, devo dire che non mi è dispiaciuto. Trovo interessante anche l’esperimento lessicale di usare neologismi dialettali, ricchi di fonemi molto diffusi, oggi, nel trapanese, al posto dell’originale ausitano (proprio della Kalsa) con inflessioni calabre da riferire ai principali protagonisti. L’autrice, che non ha alcuna pregressa saggistica pubblicata nel settore, offre il suo punto di vista rispetto ad una storia non facile da raccontare traendone gli elementi che sono più congeniali al suo modo di scrivere e li attaglia al suo tipo di lettore. Se tanto mi dà tanto credo che abbia fatto un buon lavoro, in linea con quello che, neanche tanto velatamente, appare un progetto ad ampio respiro dove il libro è solo un tassello di mosaico. La stessa sintassi usata, a volte, con frasi di una sola parola riferite ad effetti sonori o visivi, fa pensare ad una sceneggiatura già pronta… Il buon battage pubblicitario a livello mediatico ha fatto il resto: il pubblico di lettori è soddisfatto dal prodotto editoriale che risponde alle attese e il successo penso sia meritato. Quanto al remake devo precisare che, per ora, la Auci ha trattato di un periodo che io nel Leone di Palermo affronto sono marginalmente, concentrandomi sulle vicende della coda della dinastia. Attendo il sequel per capire meglio la larghezza dell’opera di vendemmia che, stando al titolo, come ben sottolineate, potrebbe essere suggestiva.
Sei anche un grande appassionato ed esperto di auto da corsa d’epoca e di Porsche in particolare tanto è vero che nel 2014 hai pubblicato un interessante libro dal titolo “La Regina delle Madonie. Porsche in Targa Florio”. Come nasce quest’altra tua passione per le auto d’epoca da corsa che immaginiamo collegata alla Targa Florio e al Giro Automobilistico di Sicilia?
Porsche e Targa Florio sono nomi legati a doppio filo. La casa di Stoccarda è quella che ha vinto di più sulle Madonie. Ma non solo. La grandezza di questo marchio deve proprio la sua crescita di vittoria in vittoria proprio alla corsa di Florio. Infatti, quando per la prima volta, nel 1970, la Porsche giunta all’apice della potenza tecnica, vince la corsa più importante del mondo, la 24 Ore di Le Mans, aveva già vinto, con grande stupore, diverse edizioni della Targa Florio con macchine piccole ma efficacissime sulle stradine siciliane. Le Madonie sono fondamentali per la storia della Porsche e di tante altre marche prestigiose. Ricordarlo credo sia un dovere da parte di chi come me ama questo aspetto dell’automobilismo sportivo. Le auto storiche oggi hanno un ruolo che non è solamente esornativo, esibizionistico da parte di chi le possiede. Hanno la funzione di testimoniare l’ingegno umano dei loro progettisti, dei loro carrozzieri, di quelli, cioè, che hanno dato vita ad opere d’arte che oggi, grazie a corse e raduni le mantengono vive e fruibili. Non solo: permettono ad ex piloti non più giovani di misurarsi sui mezzi da sempre amati non più su gare di velocità ma di regolarità dove l’anagrafe conta molto meno. Così si mescolano alla passione di chi, magari, non ha corso mai, ma nutre le stesse emozioni con la semplice messa in moto di tali prodigi di meccanica. In pratica: il vero senso del revival.
Quale appassionato d’auto d’epoca da corsa, ne hai qualcuna nel tuo garage alla quale magari sei particolarmente affezionato per la sua storia?
Purtroppo non posseggo alcuna auto d’epoca. Non nascondo però che mi piacerebbe … Bisognerebbe avere anche il tempo di curarle. Nei garage sono ospiti molto esigenti…
Hai mai fatto, con un’auto d’epoca, un giro di Sicilia da ricordare, magari romantico con la tua donna di allora o di adesso? Insomma, un’esperienza che unisce la passione per la Sicilia, per le auto e per i sani sentimenti?
Negli ultimi vent’anni ho partecipato a circa una cinquantina di eventi per auto storiche, sempre invitato da amici a bordo delle loro auto o dagli organizzatori a fare da apripista. In qualche occasione ho anche aderito alle richieste di portare la mia macchina che non è propriamente un’auto storica ma consente di divertirmi insieme, quando possibile, con mio figlio. Indimenticabile, due decenni addietro, un lungo tratto del Giro di Sicilia fatto da navigatore su una Bugatti 35 (una della più belle macchine sportive di sempre) di un amico francese che, incantato dal paesaggio o confuso dai bivi, temeva di perdersi o, l’esperienza a fianco di Clay Regazzoni o Andrea Montermini, due piloti che ci stanno poco a farti capire che guidare davvero sportivamente non è cosa che si improvvisa facilmente. In gioventù ho fatto un tour romantico, con la mia ragazza di allora, sul Circuito delle Madonie di 72 chilometri. Fu molto interessante, e non solo per la sosta enogastronomica che piacque tanto alla mia compagna. Lo vissi come una ricognizione dell’intero percorso annotando ogni chilometro e quel che di importante c’era, tra immobili e vegetazione. Io dettavo e lei scriveva accanto a me. Fu una sorpresa. Quel giro di corsa era un viaggio nella storia della Sicilia. C’era di tutto: la chiesa barocca, il tempio greco, il bagno punico, l’acquedotto romano, il palazzo medioevale, il fortilizio cinquecentesco, il presidio bizantino, la villa ottocentesca, le terme fasciste o l’arco islamico. Il territorio attorno ai centri di Termini, Cerda, Sclafani Bagni, Caltavuturo, Collesano, Campofelice di Roccella, e la piccola Himera sono uno scrigno continuo che mostra gioielli architettonici immersi in paesaggi da favola: montagne innevate e mare che si inseguono a perdita d’occhio, sterminate piantagioni di ulivo che si arrestano in terrazze a strapiombo su vallate segnate da fiumi regalando panorami mozzafiato. Anche a questo si deve la fortuna della corsa di Florio. Un’occasione sportiva in grado di mostrare al mondo che l’isola non era, come ritenuto nell’immaginario collettivo di allora, un’enorme distesa di sassi e fichidindia.
Da buon siciliano, sei innamorato della Sicilia e della sua storia. Ci racconti dei tuoi libri sulla tua isola? Quali sono e di cosa parlano?
A parte le pubblicazioni a carattere scientifico legate alla mia professione io scrivo solo di Sicilia e della sua storia. Scrivo di un ambito di nicchia: non miro alle vendite ma al piacere di condividere le cose che conosco, cercando di essere originale dove si può. Scrivo prevalentemente di Palermo, di Sport o dei Florio, delle terre che hanno interessato le loro imprese, una più bella dell’altra: Palermo Liberty, Marsala, le Tonnare di Favignana, quella dell’Arenella che fu residenza come è oggi, ma anche il meraviglioso parco dell’Olivuzza, risultato di fusione di una mezza dozzina di immobili, visitato da re e imperatori per oltre mezzo secolo. Mi piace però ricordare che ho anche scritto di mafia, di come questa piaga fece ingresso in città nella prima metà nel secolo scorso, col romanzo Di Nessun colore. Il mio primo scritto riguardava, però, un’altra peculiarità siciliana, diametralmente opposta, che solo di recente passa per le guide turistiche di più largo consumo: le antiche ville settecentesche. A Palermo sul finire del ‘700, quando il re di Napoli venne a svernare in Sicilia durante l’occupazione napoleonica ci fu la corsa della nobiltà autoctona ad erigere ville estive a ridosso della Casina Cinese nel cuore della Favorita che i sovrani avevano scelto come residenza stagionale. Dal riadattamento di antichi casolari disseminati nella campagna, oggi quasi totalmente occupata dalla città moderna, nacquero una miriade di ville barocche che affiancarono quelle preesistenti che davano il nome alle borgate (Resuttana, Tommaso Natale, Partanna, etc.). Un libro che nasce dalla ricerca di cui sopra parlavo e dalla percezione di quel che sogno che doveva essere la campagna palermitana a quei tempi. l libro si chiama Ville di Palermo. Mi diede l’onore di presentarlo Dacia Maraini. Venticinque anni addietro. Come passa il tempo.
Se dovessi consigliare a dei turisti che non sono mai stati in Sicilia tre città da visitare, quali consiglieresti e perché proprio quelle?
I turisti hanno tutti esigenze diverse, interessi diversi. Dar loro dei consigli sconta il limite della soggettività: non si può prescindere dai gusti del consigliere. Tre città? Due grandi e una piccola. Siracusa: centro ancora a misura d’uomo dove ci si può immergere nella storia millenaria e mangiare da dio nei posti giusti. Girare per Ortigia, anche nel caos odierno, ha un fascino particolare e difficilmente eguagliabile. Percorrere il passeggio Aretusa fino al lungomare Alfeo, al tramonto, può essere un’esperienza indimenticabile. Seconda città: Enna. La sua altezza l’ha messa al riparo, a lungo, nei secoli dalle scurrili invasioni della modernità. Lì tutto ha il segno del tempo antico. Le cento chiese che la segnano godono di un barocco semplice e incorrotto, diverso da quello, ciclicamente, invece, veniva ritoccato nelle linee formali nei centri di riviera aperti alle contaminazioni della moda. Il lago di Pergusa con annessa riserva dove si raccolgono tutti i genotipi degli ulivi mediterranei, vale da solo, una gita. A turisti mordi e fuggi consiglierei di saltare un pasto e acquistare uno dei libri di Rocco Lombardo, mite e profondo conoscitore della storia di Castrogiovanni (come si chiamava Enna fino al 1927) recentemente scomparso e, magari, sfogliarlo al fresco del Belvedere, davanti ad uno dei più bei panorami del mondo, da dove si domina tutta la Sicilia. Infine un centro piccolo: Montalbano Elicona. Un borgo di recente assurto a gloria televisiva ma che è unico per un patrimonio misconosciuto: l’altopiano di Argimusco nella riserva di Malabotta. Un posto magico che tale è stato per millenni e dove ancora si trovano testimonianze preistoriche: un paradiso archeologico ma anche di forte suggestione esoterica grazie ad impressionanti megaliti attorno ai quali, per secoli, studiosi di ogni latitudine hanno consumato energie cerebrali per decodificarne un univoco significato.
Salvatore, in queste interviste ad un certo punto chiediamo ai nostri ospiti delle chicche culturali che hanno a che fare con la settima arte e con la letteratura. Quello che ti chiediamo adesso è di consigliare ai nostri lettori 3 film da vedere. Quali consiglieresti e perché?
Primo: un film di vent’anni fa. Una storia vera di David Lynch, grande descrittore di personaggi che ti colpiscono sin dalle prime battute e dalle iniziali inquadrature. Un film che ti commuove fino alle lacrime. Una storia forte che mi tocca profondamente e personalmente. Il mio unico fratello morì a 27 anno a seguito di un incidente nautico. Capisco il protagonista del film, il vecchio d’acciaio Alvin Straight, e anch’io avrei fatto quel che lui ha fatto, magari senza la teatralità che alcune scene, inevitabilmente, evocano. Ma con lo stesso pathos, quello, insopprimibile, del dolore diretto. Secondo: C’era una volta in America. L’impaginato narrativo di Sergio Leone in questo film è semplicemente magistrale. Io ho imparato a raccontare vedendolo decine di volte. Un film che non merita il posto di media classifica che alcune graduatorie americane si ostinano a dargli, specie quelle che gli preferiscono Psycho o la Finestra sul cortile oppure Guerre Stellari. Film tra i migliori di sempre con musica e sceneggiatura di livello olimpico. Terzo: vorrei dire Tre Colori – Film Blu di Krzysztof Kieślowski ma, nello spiegare le motivazioni, entreremmo troppo sul personale riservato che non merita divulgazioni, in quanto, sotto il profilo professionale, ho seguito per anni un caso straordinariamente simile, dove alla disgrazia dell’evento si assommava la sventura di aver avuto un figlio diverso dal desiderato. Allora dico, per motivazioni simili al secondo, Pulp Fiction. Tarantino, del quale, tuttavia, non amo particolarmente la scelta della sceneggiatura stereotipata che prevede, monotonamente, in ogni risposta la esplicita riproposta della domanda dei vari interlocutori, ha una capacità straordinaria di incastrare le storie che, indipendentemente dalla loro profondità, danno anima e spessore alla trama specie se imbastite intorno a personaggi singolari. Mister Wolf è una coltellata a tutta la nostra era pullulante di esperti dell’ovvio per non dire del nulla. Approfitto del tema per citarne un quarto, nel centenario della nascita di Alberto Sordi, un film che, dopo averlo per anni poco amato, a torto, come attore, me lo ha fatto riconsiderare: Una vita difficile di Dino Risi. Di personaggi alla Magnozzi, camaleontici ma mai fino in fondo, ognuno di noi, nei decenni, ne ha incontrati tanti e non sempre, allo stesso modo, divertenti. Uno spaccato individuale della prima repubblica con metamorfosi e ritorni di fiamma che fanno riflettere.
Tre libri che ti hanno segnato culturalmente e umanamente, e che consiglieresti di leggere? Quali e cosa ti hanno lasciato?
Uno che, come me, scrive per diletto si serve di modelli, incorporando, a volte, inconsapevolmente, stili e registri presenti nelle letture di maggior interesse e partecipazione. Allora devo citare, per primo, non un romanziere, non un letterato ma la figura che mi ha fatto nascere l’amore per la mia città: Rosario La Duca. I suoi articoli sul Giornale di Sicilia di quasi mezzo secolo addietro, poi raccolti in più volumi ne La città perduta, hanno costituito la molla interiore per me e qualche altro centinaio di studiosi panormiti. Onore al merito. Poi direi Umberto Eco de Il nome della Rosa che mi ha stimolato la metodologia di ricerca incrociata alla base della narrazione del mio Il segreto dell’anfora (si parva licet componere magnis…) con speciale riguardo ai documenti storici e al modo di pensare in quel tempo reso oscuro dalla pervadente e asfissiante pressione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione in Sicilia. Per il terzo sono indeciso tra l’Urlo e il furore di William Faulkner, per me il prototipo del romanzo storico con efficacissima formula diaristica dagli spazi sconfinati, e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, insuperabile miscelatore di filosofia e attenzione descrittiva spinta ai minimi dettagli che, personalmente trovo, non solo didascalica ma profondamente pedagogica. Ma farei un torno a me stesso se non ammettessi, pubblicamente, che ho imparato a scrivere di sport leggendo gli scritti geniali di un uomo a tutto tondo prima che giornalista e scrittore: Gianni Brera. Le sue cronache di eventi sportivi sono leggenda ma soprattutto avvincono le sue considerazioni e gli accostamenti tipici di una persona profondamente colta. Il suo romanzo Il mio vescovo e le animalesse penso possa essere, ancora oggi, per molti, un’autentica rivelazione.
Prima di salutarci ecco la nostra domanda di rito: “Che cos’è per Te la genialità”?
Riuscire ad esprimere al meglio quel che di unico c’è nei nostri geni.
Roberta e Andrea
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Salvatore Requirez
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