La storia del ’48 siciliano, fra contraddizioni e ingenuità, segnò il tramonto del sogno indipendentista e il consolidamento dell’idea di una Sicilia, pur con le sottolineature delle proprie specificità, parte della grande nazione italiana. Dopo il ’48, inoltre, ogni possibile consenso alla riproposizione del Regno delle Due Sicilie era stato infatti bruciato anche dal modo in cui l’Isola venne riassociata al dominio borbonico.
Le truppe del generale Carlo Filangeri, principe di Satriano – rafforzate da contingenti svizzeri – non si fecero scrupolo di fare terra bruciata nel corso delle operazioni militari, mostrando il volto feroce della guerra. Fu Messina la vittima più illustre di questa ferocia, punita in modo indegno per avere opposto una fiera resistenza a quello che veniva considerato nemico. Ferdinando II autorizzò infatti il bombardamento della città col risultato che non solo furono colpiti obiettivi militari ma anche obiettivi civili, a cominciare dall’ospedale cittadino. Per quel triste episodio, il giovane Ferdinando, fu a buon diritto, ribattezzato “re bomba”.
Di questi episodi di resistenza una memoria particolare va dedicata ai cosiddetti “Camiciotti”, giovani studenti del “Decimo battaglione siciliano”, così chiamati perché indossavano un lungo camicione di colore blu, che mostrarono fino all’estremo sacrificio e rappresentava l’orgoglio di appartenenza. Di questa storia vogliamo accennare anche per la singolarità dello svolgimento dei fatti.
Questi giovani soldati si erano asserragliati, con il consenso e la connivenza dei monaci, all’interno dell’antico convento benedettino della Maddalena, decisi a combattere fino allo stremo delle proprie forze. Una promessa che mantennero, visto che prima di concludere la loro esistenza diedero del filo da torcere alle truppe borboniche e soprattutto ai mercenari svizzeri che le precedevano. Per stanarli dalla loro posizione i borbonici non si fecero scrupolo di puntare i cannoni contro le sacre mura facendo strage di dei resistenti e di quei monaci che si erano loro uniti per dare conforto.
La battaglia infuriò violenta e bene presto, essendo penetrati dentro le mura, mentre il convento bruciava, si passò ad un orrendo scontro corpo a corpo. Ormai ben poco restava altro da fare se arrendersi alla forza del nemico, e qui accadeva ciò che nessuno avrebbe potuto immaginare. Gli ultimi superstiti, se ne ricordano sette, piuttosto che capitolare, con uno scatto inaspettato si buttarono dentro il pozzo del cortile del monastero. Nessuno di essi si salvò, morirono tutti e sette, lasciando a bocca aperta gli avversari che mai avrebbero immaginato tanta determinazione.
Per correttezza del nostro racconto, bisogna anche riportare l’opinione di chi offre una versione meno edificante dell’episodio e non si preoccupa di buttar fango sui protagonisti di quella vicenda. Per costoro, piuttosto che giovani studenti ardenti di amor patrio, si tratterebbe di malfattori usciti dalle patrie galere. Versione quest’ultima che mal si concilierebbe con l’epilogo drammatico della vicenda, delinquenti e galeotti si sarebbero arresi e non avrebbero cercato la morte buttandosi dentro quel pozzo.