Carissimi
Zio Giuseppe, era un falegname e nella sua piccola Cerze, aveva dedicato tutta la sua vita a fare l’artigiano, andando a bottega da Don Nonò, non appena finita la scuola dell’obbligo e diventato in seguito proprietario della falegnameria, quando quest’ultimo anziano e senza figli aveva deciso di ritirarsi.
La mattina presto si alzava, svegliava il gallo e mentre ancora c’era buio, si incamminava verso la sua bottega a fine paese, si fermava a guardare il giorno che sorgeva e le lucette nella vallata delle case di Pollina, di Crongoli, di Pizzo Scozzolato poi con aria frastornata si guardava la mano destra e buttava lì in modalità interlocutoria, un paio di bestemmie prima di iniziare la sua monotona giornata lavorativa.
A cosa doveva le imprecazioni? Gli strumenti dell’epoca non erano certamente sicuri come quelli di oggi e uno di questi, la sega, da giovane gli aveva reciso le tre dita della sua mano destra. Lui non si era dato per vinto.
La domenica in piazza, una volta usciti dalla messa (poiché è vero che lui santiava, ma a suo modo era religiosissimo) seduti davanti al bar della Zza Nunziata, i suoi amici ne approfittavano per sfotterlo, coinvolgendolo in discussioni sul suo futuro. Ogni qualvolta gli dicevano “tuo figlio farà il tuo stesso lavoro”, lui di istinto ittava na para di bestemmie che accendevano il cielo e poi per scongiuro alzava impettito il dito medio della mano destra, rendendosi conto dopo che trattavasi del dito fantasma.
Finalmente dopo qualche anno di matrimonio nacque suo figlio Mariano, rimasto unico, verso il quale Giuseppe riversò tutte le attenzioni e le aspettative, ripromettendosi che mai il ragazzo avrebbe imbracciato lo zappone, o finito per fare l’artigiano in falegnameria, ma che suo figlio si sarebbe laureato.
Tanti sacrifici quindi per farlo studiare a Palermo e infine a mandarlo all’università a Milano, la migliore che c’era, La Bocconi, così aveva sentito in televisione e così doveva essere.
Passarono gli anni e Mariano, ragazzo brillante, si laureò con il massimo del punteggio e quando fu fissato il giorno della proclamazione, zio Giuseppe, si mise il miglior vestito che avesse, uno solo, la camicia ormai smunta, la cravatta a nodo grande, il tutto senza alcun accoppiamento di colore e partì in treno con la zia per Milano.
Giunto in ritardo, non riuscì a salutare ed abbracciare il figlio e si confuse tra i parenti eleganti degli altri laureandi, i quali lo guardavano con atteggiamento sfottente causa l’inadeguatezza del suo modesto abbigliamento con il contesto di gente danarosa, ma gli bastò vedere suo figlio li sul palco, felice insieme ai figli dei signori e se ne priò.
Era tutto bello, tutto perfetto e l’unica cosa che stonava in quel contesto si rese conto che era proprio lui, così si tolse la coppola, disse alla moglie che si sarebbe allontanato un attimo e non attese che finisse la proclamazione, iniziò a camminare a piedi fino alla stazione, dove un’ora più tardi sarebbe partito il primo treno per il meridione.
Era tutto bello, troppo bello e perfetto, era un sogno che si realizzava e che lui non avrebbe mai voluto rovinare, così prese quel treno.
Non mancò molto che a cerimonia ultimata Mariano e la madre si resero conto che zio Giuseppe, non c’era e soprattutto che non si trovasse, era tornato a casa, ma non giunse mai nella sua Cerze perché l’emozione era stata tanta da procurargli un infarto fulminante che lo colse mentre il treno era in movimento.
In paese, nella falegnameria era rimasto il regalo di laurea per Mariano, coperto da un grande lenzuolo, un massiccio tavolo riunioni costruito con tanto amore e sacrificio le sere, dopo il lavoro ordinario, da Giuseppe per il figlio e su questo era poggiata una lettera scritta con quella calligrafia infantile e una ortografia che lasciava a desiderare, ma molto piena di sentimento.
“Caro Mariano, questo è il regalo di tuo padre per il giorno della tua laurea, i tuoi colleghi riceveranno regali importanti dai loro genitori, ma non importanti come questo costruito da me. Ti chiederai perché un tavolo così grande per regalo?
Non lo so, ma nella televisione ho visto sempre li film dove le persone importanti sedevano a capo di queste tavole e allora mi sono detto mio figlio avrà un tavolo come quelli per sedersi a capo tavola.
Ma tu che sei studiato ormai, mi potrai togliere una curiosità. Se questa gente importante come diventerai tu passa tutto il tempo assittata in riunione, quannu “minchia” travagghia?”
Che avrà voluto dire nella sua modesta “gnuranza” che o si passa il tempo a “riunirsi” o si passa il tempo “a lavorare”? Mistero della fede.
Un abbraccio, Epruno