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In memoria di un grande magistrato assassinato dalla mafia: Gaetano Costa

sabato 5 Agosto 2017
Gaetano_Costa

Il 6 agosto del 1980, mentre era intento a sfogliare alcuni libri nell’edicola posta di fronte all’attuale Feltrinelli, veniva assassinato da due killer mafiosi il procuratore della Repubblica Gaetano Costa.

Era solo, senza un minimo di scorta e di tutela, da lui stesso rifiutata perché, spiegava, a lui spettava avere coraggio e non voleva coinvolgere altri nel pericoloso lavoro di protezione.

Ricordarlo non è soltanto un dovere morale, ma il suo ricordo risponde anche a un’esigenza civile e politica perché parliamo di un magistrato, com’è avvenuto nei giorni scorsi per il giudice Chinnici, e nei mesi precedenti per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di quanti uomini dello Stato, troppi purtroppo, hanno sacrificato la vita per difendere la nostra libertà e la nostra convivenza civile dal pericolo mafioso.

A Gaetano Costa va, in modo particolare, il riconoscimento e la gratitudine per avere avviato una strategia giudiziaria antimafia di attacco che diede uno scossone ad una situazione di quieto vivere che coinvolgeva non solo la politica ma anche altri organi dello Stato.In pochi, infatti, avevano capito le trasformazioni rilevanti del potere mafioso.

Un dinamismo che avrebbe sicuramente impresso anche Cesare Terranova, chiamato all’ufficio istruzione, dopo la parentesi parlamentare in cui si distinse con Pio La Torre nel lavoro della commissione antimafia. Cosa Nostra non gli diede, però, neanche il tempo di insediarsi.

E’ con l’azione risoluta di Gaetano Costa che la mafia comincia a preoccuparsi dell’attività giudiziaria.

Nel “palazzo dei veleni” l’arrivo di Gaetano Costa fu salutato positivamente e anche con speranza da chi auspicava una svolta che intravedeva già nel suo nuovo modo di lavorare, anticipando quel lavoro di equipe, seguito poi da Chinnici e Falcone e che risulterà l’arma vincente nei successi giudiziari conseguiti.

 

Il suo arrivo fu, però, anche circondato da un clima di riserve e pregiudizi strumentali da chi invece continuava a vivacchiare in una gestione burocratica degli uffici giudiziari.

Alcuni ricordavano, strumentalmente, il suo essere stato in gioventù un animatore dell’azione antifascista nella sua città di Caltanissetta, organizzando un gruppo di Resistenza con Rita Bartoli, che poi diventerà sua moglie, donna di grandi doti umane e morali, a Emanuele Macaluso, Leonardo Sciascia, Gino Cortese e altri ancora.

Questo suo impegno antifascista gli valse, quindi, l’etichetta di magistrato di sinistra, ma tutte le persone intellettualmente oneste sapevano bene che, proprio in virtù di quei valori e principi di libertà e di democrazia che aveva sempre coltivato e del rigore morale a cui ispirava i suoi comportamenti, era il più coerente assertore e difensore dell’indipendenza della magistratura: “Se si vuole amministrare giustizia, –diceva- non si possono fare compromessi con il potere politico, qualunque sia il colore politico che lo incarna”.

Tra gli omicidi che hanno lasciato il segno nella storia della Sicilia, in quei terribili Anni Ottanta, Michele Reina,Pier Santi Mattarella, Cesare Terranova, il capitano Emanuele Basile, il vice questore Boris Giuliano, Rocco Chinnici e altri ancora fino a Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, quello di Costa è il solo di cui non si conoscono né i mandanti né gli esecutori, nonostante l’impegno profusodalla magistratura.

Della lista di cinquantacinque mafiosi da arrestare, frutto della sterzata investigativa impressa dal procuratore appena insediatosi, figuravano i principali esponenti dell’organizzazione mafiosa, dagli Spatola, agli Inzerillo, dai Gambino ai Di Maggio che, con Stefano Bontade avevano dato vita a un cartello della droga, dalla produzione, raffinazione e all’esportazione, sul modello colombiano, un’indagine avviata da vicequestore Boris Giuliano.

La potenza finanziaria, economica e militare acquisita con i proventi del colossale e lucroso traffico della droga consentiva alla Mafia di poter fare a meno della tradizionale mediazione con la politica ed erigersi a potere autonomo a cui tutti dovevano sottomettersi.

Gaetano Costa aveva individuato il cuore di questo nuovo sistema mafioso che fino a qualche mese prima aveva garantito a Palermo protezione e rifugio a Michele Sindona.

Fu lasciato solo a firmare quei mandati di cattura. Alcuni sostituti si rifiutarono, ma il procuratore non si perse d’animo e forse con quella firma firmò anche la sua condanna a morte per avere capito e colpito i santuari della mafia.

Tommaso Buscetta riferirà ai giudici che l’assassinio fu voluto da Salvatore Inzerillo per dare prova ai corleonesi della sua potenza,ma essa appare una motivazione riduttiva ed elusiva, perfino ridicola, rispetto all’azione dirompente che l’attività giudiziaria del procuratore aveva innescato.

D’altronde, questa posizione di Buscetta era dettata dalla comune appartenenza, prima del suo pentimento,a quest’ala della mafia avversata dai corleonesi e poi perché nelle sue dichiarazioni in modo anche abile, aveva saputo mescolare bugie e verità ed era rimasto sempre elusivo sui rapporti tra mafia, politica e finanza, i santuari che Gaetano Costa aveva individuato.

Per superare le difficoltà e la crisi che il movimento dell’antimafia sta attraversando per i suoi errori e le degenerazioni che ne hanno appannato la funzione, occorre ritornare agli esempi e agli insegnamenti, a cui per fortuna possiamo attingere e di questi Gaetano Costa rimane un fulgido esempio e un punto di riferimento che non possiamo permetterci di smarrire.

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